Lettura e tradizione
(Parol 3 - 1987) dibattito a cura di M. Baldi: intervengono Harold Bloom, P. Bagni, G. Fink, V. Fortunati,
G. Franci, E. Raimondi e A. Tagliaferri.
Premessa di Mario Baldi
Opera d'arte e misreading. Misreading. Alla lettera: "fraintendimento", "cattiva lettura" ecc. Ma cattiva lettura e fraintendimento rispetto a che cosa? Inevitabilmente rispetto a una lettura buona o a un intendimento " retto " che dir si voglia. Ora, buoni e retti in che senso? Nel senso epistemologico, diciamo così, di una lettura e di un intendimento intesi come gli unici veri, perché del tutto corrispondenti alla verità che l'artista ha voluto inscrivere nell'opera, oppure nel senso etico di una lettura e di un fraintendimento giudicati buoni e retti in rapporto all'ottica e alle ragioni etico-politiche del tempo (del luogo) in cui vengono emessi, indipendentemente dalle intenzioni dell'autore?
Questioni (distinzioni) grosse, queste, e spesso, nella vita quotidiana della critica, ingarbugliate e molto confuse. Ma questioni da meditare e, per quanto possibile, da chiarire, soprattutto se si fa del misreading il perno del proprio fare critica, con in più l'intenzione, questione ancora più grossa, di porsi decisamente oltre (al di fuori) di ciò che negli anni passati s'è detto strutturalismo. Un misreading così inteso ne lascierebbe, infatti, del tutto intatta quella specie di malattia ontologica (quell'ontologismo indebito) che tanto s'è deprecata e di cui, se ben si comprende, ci si vorrebbe invece liberare, con la conseguente aggravante di arrivare a scambiare la presa di coscienza dei sintomi del nostro disagio di fronte ad essa per una riconquistata salute, sia che si assuma il misreading in chiave epistemologica sia che lo si assuma in chiave etica, indifferentemente. Un po' come se un carcerato credesse di non avere più i piedi in prigione, per il semplice fatto di trovarsi, nel caso misteriosamente, a camminare sulle pareti della cella (misreading epistemologico) oppure per il semplice fatto di trovare giusta la sua condanna (misreading etico).
Ebbene, nel così-detto decostruzionismo (qui, in specie, nel gruppo di Yale) il misreading viene veramente assunto in senso letterale o non piuttosto secondo un suo senso metaforico, tale che quando si dice "misreading" non si vuole poi affatto dire "misreading", fraintendimento insomma di una verità già data, ma propriamente "intendimento" di una verità critica che si fa contestualmente al suo stesso venire (nel momento stesso in cui viene) intesa? L'opzione di Bloom, ad esempio, per un misreading forte opposto a uno debole, parrebbe far pendere la bilancia per il misreading, diciamo così contestuale, anche se, è da notare, occorre andare molto cauti a generalizzare, tanto per Bloom stesso quanto per i simpatizzanti del decostruzionismo in genere.
E', ad ogni modo, unicamente in questa chiave (per quanto insomma in essa è in tal modo leggibile) che "Parol" trova di grande interesse occuparsi di questo versante della contemporanea riflessione sul modo di vivere, nella critica, dell'opera d'arte. Versante cui, anche in Italia, s'è cominciato a lavorare da anni, con contributi in saggi e libri di vario spessore (e valore), tra i quali non secondari, crediamo, anche alcuni contributi degli autori, appunto, di "Parol". Pensiamo, per esempio, alla Lettera aperta a linguisti e semiologi redatta e fatta circolare in dattiloscritto da Luciano Nanni nella seconda metà degli anni '70 e uscita poi presso l'Editore Garzanti nel 1980 con il titolo un po' improprio (un po' fuorviante, è da dire) di Per una nuova semiologia dell'arte.
Materia allora e comunque, tutta questa, magmatica, aspirante indubbiamente a una qualche razionalizzazione se non proprio a una sistemazione, ma nazionalizzazione a tempi e passi necessariamente guardinghi e cauti, se è vero che lo stesso Derrida, richiesto di chiarimenti circa il significato del termine "decostruzione", dal suo traduttore giapponese, non trovava di meglio che rinviargli la palla. In attesa del compimento di tali tempi, anzi per meglio facilitarlo, che cosa di meglio del raccogliere materiali, del preparare documenti? Nel numero due di "Parol" (1985), lo abbiamo fatto con H. Miller; in questo numero lo facciamo con H. Bloom, nel prossimo, se tutto va bene, avremo G.H. Hartman e così via.
Relazione-dibattito, questa di Bloom, in cui la pratica del leggere-prospettivizzando (del mis-leggere, insomma) viene rapportata al grande tema della tradizione, senza che questo stesso tema, per la sua imponenza e complessità, arrivi ad esercitare su di essa (sui suoi problemi teorici) una crudele azione di messa-a-parte, di emarginazione. Appare anzi vero il contrario: letto, per così dire, in rapporto alla tradizione, il mis-reading rivela valenze e centralità insospettate, se è vero che, come questo dibattito sottolinea, la nozione di tradizione stessa pare rettamente concepibile sempre e soltanto come una grande operazione di mis-reading del passato, qualunque esso sia.
Tale incontro-dibattito, organizzato, a conclusione di un denso seminario dello stesso Bloom su Milton, da Vita Fortunati e Giovanna Franci, si è tenuto presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere Moderne dell'Università di Bologna, nell'ottobre del 1986. Le traduzioni della relazione e delle risposte di Bloom sono di D. Carpi e di C. Ace, come, volta per volta, indicato.
Introduzione di Paolo Bagni
Sono molto lieto di essere qui in questa circostanza, all'interno dei lavori che il Dipartimento di Lingue ha organizzato con la presenza di Harold Bloom, presenza che già abbiamo avuto la felice fortuna di avere a Bologna nella nostra Università; e ci si offre ora questa occasione, accanto al loro lavoro seminariale, di un incontro in un qualche modo più libero, più informale, confuso forse, ma che sicuramente ci consente di trovarci intorno a un tema per ragionare, per parlare.
Il tema del nostro incontro è "Lettura e tradizione". A me sembra che il tema dell'incontro, formulato nella congiunzione dei due termini "lettura" e "tradizione", quasi proponga in necessità la congiunzione stessa. Infatti, sembra che ciascuno dei due termini non possa non rinviare all'altro; come in una sorta di meccanismo fisiologico, di stimolo e risposta allo stimolo. Credo che non occorra avventurarsi in definizioni. Tuttavia, è certo che se la parola lettura implica la nozione di una qualche esperienza con parole scritte, con un libro, e se, a sua volta, la parola tradizione implica la possibilità dell'essere trasmesso, di qualche cosa che, allo stesso tempo, incombe come dato ed è disponibile all'appropriazione: allora, è certo che, reciprocamente, i margini della lettura si iscrivono nei margini della tradizione. O, se si preferisce, se si vuole un'altra immagine, potremmo dire che, come tra due poli a differente potenziale, si instaura una corrente, una tensione ininterrotta.
In ogni caso non sembra che le nostre inquietudini, le nostre domande sul tema "Lettura e tradizione" possano essere soddisfatte oggi, proponendo la questione nei termini di una dicotomia (poco importa se pacifica o conflittuale), una dicotomia tra soggettivo, individuale, personale (la lettura) e oggettivo, collettivo, istituzionale (la tradizione).
Vorrei citare qualche parola di Albert Béguin, da un vecchio numero del 1960 di "Esprit", dedicato alla lettura [Cfr. A. Béguin, La rencontre des Livres, "Esprit", 4, avr. 1960, pp. 645-50] proprio perché queste parole, pur perfettamente ragionevoli, mi sembrano altrettanto perfettamente sbiadite e lontane. Scriveva infatti Béguin: "sono d'accordo con Roland Barthes quando mi dice che la lettura è insostituibile, ma sono meno d'accordo con lui quando dice che si verrebbe a toccare l'essenza della lettura grazie alle tecniche scientifiche moderne; sono persuaso che queste tecniche, di grandissima utilità civile, toccano l'uomo in ciò che egli ha di collettivo, ma lasciano sempre scappare (e non credo che sia una imperfezione provvisoria) ciò che noi abbiamo di più personale" [A. Béguin, La rencontre ..., cit., p. 645]. Dicevo che sbiadite e lontane mi paiono queste parole; semmai, se vogliamo ancora sfogliare questa vecchia rivista, sarà più curiosa, interesserà di più, tutto sommato, una battuta deliberatamente provocatoria di H. Miller quando scrive: "La ricerca di un libro, come sanno bene alcuni di noi, spesso ci arricchisce molto di più che non la sua lettura" [H. Miller, Lire ou ne pas lire, "Esprit", cit., p. 653]. Qualche ulteriore punto di riferimento perciò occorre su questo tema, su questo nesso, lettura e tradizione. Si potrà cominciare con quella idea di tradizione, il cui senso si mostra tale da accentuare l'accordo tra il vecchio e il nuovo.
Nel noto saggio Tradizione e talento individuale, scrive Eliot che "i monumenti esistenti costituiscono tra loro un ordine, che è modificato dall'introdursi nel loro cerchio di una nuova (realmente nuova) opera d'arte. L'ordine esistente è completo prima che arrivi la nuova opera; perché l'ordine resista dopo il sopravvenire della novità, l'intero ordine esistente deve essere, sia pure di poco, mutato; e così le relazioni, le proporzioni, i giudizi di ciascuna opera d'arte rispetto alle altre vengono ordinati di nuovo: e questo è l'accordo tra il vecchio e il nuovo" [Cfr. T.S. Eliot, Il bosco sacro, Milano, 1971, p. 95]. E questo accordo, per Eliot, è responsabilità massima del poeta, se, appunto, il passato è rinnovato dal presente così come il presente è sostenuto dal passato.
Tuttavia questo compito, per Eliot, può essere assolto solo mediante, da parte del poeta, la estinzione della personalità. Ricorderete come Eliot parli della carriera di un artista come un continuo autosacrificio, un processo di spersonalizzazione, la cui immagine è messa in scena dall'avventura del filo di platino, "quando si introduce un pezzetto di sottile filo di platino in un ambiente contenente ossigeno e biossido di zolfo". Che cosa accade? Accade una reazione che tocca l'ossigeno e il biossido di zolfo, ma lascia intatto il filo di platino e tuttavia questa reazione non può avvenire in assenza del filo di platino. Ecco: "la mente del poeta è il filo di platino". Per cui "il poeta ha non una 'personalità' da esprimere, ma un mezzo e non una personalità, in cui impressioni ed esperienze si combinano in modi peculiari e imprevisti... La mente del poeta è un ricettacolo che raccoglie e conserva innumerevoli sensazioni, frasi, immagini, che restano lì finché non sono presenti tutte le particelle atte a unirsi per formare un nuovo composto" [T.S. Eliot, Il bosco sacro, cit., passim].
Accade questo in Eliot: che alla tradizione sia ancora possibile pensare solo attraverso un progetto del fare, solo attraverso la possibilità di un futuro: è nella possibilità di un futuro che si dà la possibilità di un pensiero della tradizione.
A me sembra che un tema di questo ordine sia radicalmente reinventato da H. Bloom quando egli indica che cosa debba essere una critica antitetica. Mi riferisco a L'angoscia dell'influenza, dove è scritto: "Tutti i tipi di critica che si autodefiniscono primari oscillano tra la tautologia - per cui la poesia è e significa soltanto se stessa - e la riduzione, in cui la poesia significa qualcosa che non è esso stesso una poesia. Una critica antitetica deve per prima cosa negare sia la tautologia sia la riduzione, una negazione meglio espressa dall'affermazione che il significato di una poesia può essere costituito solo da una poesia, ma da un'altra poesia - non dalla medesima poesia. E non da una poesia scelta in modo totalmente arbitrario, ma da ogni poesia importante di un precursore accertato, anche se l'efebo non avesse mai letto quella poesia" [Cfr. H. Bloom, L'angoscia dell'influenza, Milano, 1983, p. 75].
E' chiaro che in Bloom non si tratta certo più di un accordo tra vecchio e nuovo; si tratta di questa influenza poetica che viene descritta anche con queste parole: "L'influenza poetica è il sentimento - sorprendente, tormentoso, incantevole - dell'esistenza di altri poeti, qual è sentito nelle profondità del quasi perfetto solipsista, il poeta potenzialmente forte. Poiché il poeta è condannato a imparare i propri desideri più struggenti attraverso la consapevolezza dell'esserci di altri io. La poesia sta dentro di lui, e tuttavia egli esperisce la miseria e lo splendore di essere trovato da poesie - grandi poesie - fuori di lui" [H. Bloom, L'angoscia..., cit., pp. 33-4].
Una domanda ci resta da tutto questo, una domanda che non possiamo e non riusciamo ad eludere: come, allora, il contatto tra lettura e tradizione faccia scattare la scintilla, o il corto-circuito, o la scintilla e il corto-circuito del significato; e come i significati non abbiano affatto a che fare con la verità o con la realtà, con uno zoccolo duro, con una base ferma che li regga e li ponga in essere, ma con qualche cosa d'altro. Una domanda, questa, che forse è un altro modo di asserire, come già scrisse tempo addietro Anceschi, che la poesia mai si risolve in immediata leggibilità. 0 forse, se vogliamo citare, per ultimo, un libro più recente, come Valesio nel suo libro sulla retorica osserva, ogni enunciato, in ogni forma, su ogni tema,seleziona e attiva un campo di battaglia: "la retorica ci costringe a comprendere che, per quanto concerne la struttura di base del discorso umano, tutto era già stato detto prima che il primo parlante facesse il primo discorso... [il quale] poteva essere identificato ed aver senso in quanto discorso, soltanto nella misura in cui attingeva non solo ad una struttura prestabilita di espressione linguistica, ma anche ad un insieme di koinoi tópoi o loci communes. Questi topoi avevano già provveduto, per così dire, a far sì che il linguaggio non affrontasse direttamente la realtà, il mondo referenziale, ma soltanto attraverso di essi; cosicché essi frustravano la concezione di un contenuto referenziale come zoccolo del linguaggio e del pensiero" [Cfr. P. Valesio, Novantiqua. Rhetorics as a Contemporary Theory, Bloomington, 1980, pp.32-3]. Forse, come accade ai poeti con i poeti, sappiamo che parliamo solo attraverso l'esistenza di parole altrui. Ma allora può ben accadere che si riversi e si intrecci dentro alle parole ciò che abbiamo tentato di padroneggiare come rapporti tra parole, o come rapporti tra parole e significati, tra parole e cose. Ancora Valesio scrive che "le figure retoriche non sono qualcosa di sovrapponibile a realtà linguistiche di base, ma piuttosto parti e particelle della realtà linguistica di base... questo conferma che configurazioni quali la metafora non hanno luogo tra parole o tra significati di parole, ma fra tratti semantici, che attraversano le parole" [P. Valesio, Novantiqua, cit., p.201].
Concludo con questo. Ma credo che anche tutto questo abiti nella figura tracciata dalla intercisione di lettura e tradizione. Credo di avere fin troppo a lungo introdotto il tema del nostro incontro e do quindi la parola, giustamente e come vi aspettate, ad altri che non a me stesso.
Relazione di Harold Bloom
Comincio (legge direttamente da un suo precedente scritto [Da Critica, formazione del canone e profezia: i dolori della "facticity", in "Raritan", V. III, n. 3, Winter 1984]) andando alla ricerca di un termine che non riesco a trovare, poiché i dizionari non lo riportano, oppure lo citano in modo ambiguo. Ciò di cui ho bisogno è una parola che descriva il nostro essere immersi così in unatradizione, in un modo di rappresentarla oppure in un particolare autore, e solamente sforzi enormi possono renderci consapevoli di come siamo riluttanti a riconoscere il nostro imprigionamento. Devo dire fin dall'inizio che non sto parlando di un problema linguistico o di qualsivoglia sviluppo del molto abusato tropo nietzschiano del nostro essere segregati nella prigione del linguaggio. Ovviamente il mio argomento ha un aspetto testuale, ma l'ambito a cui mi rivolgo è molto più ampio della testualità, a meno che non si consideri la testualità in modo così generico da intendere come testuale ogni azione umana. Palesemente ciò rende banale ogni azione umana ed io ho sempre più in sospetto qualunque moda critica che ci sminuisca. Ma il mio argomento ha a che fare con qualcosa di inevitabile che ci sminuisce costantemente e che io credo la critica debba combattere. Vi è una specie di bruta contingenza che ci costringe a misleggere il linguaggio figurato come se fosse letterale; eppure chiamarla "contingenza" non rende appieno. Potrei parlare di bruta fattualità (factuality) o persino di bruta fattività (factìcity), ma sono consapevole che quelle parole (o non-parole) hanno delle difficoltà ad essere incluse nei dizionari. Fattualità significherebbe la condizione o qualità dell'essere fatto o fattuale appunto, come nell'espressione "io metto in dubbio la fattualità del loro resoconto". Ma Fattività, augurandomi che divenga un termine accettabile, serve meglio ai miei propositi. Fattività significherebbe l'essere fatto come stato, come fatto inevitabile e inalterabile. Essere colto nella fattività è essere colto nell'inevitabile e inalterabile. Gli atteggiamenti o posizioni di libertà non sono disponibili e il testo o l'evento ci legge più pienamente e distintamente di quanto noi non possiamo sperare di leggere lui.
Chiunque giunga tardi in una storia o in una famiglia o in un'istituzione è probabile abbia la sensazione di un suo stato perennemente incerto. Io non identifico questa sensazione con ciò che chiamo fattività, poiché l'incertezza è vicina alla libertà interpretativa oppure può esservi trasformata. Ma la tardività, per così dire, ha un rapporto peculiare con la fattività e può essere scambiata con essa. La tardività è un'ansia consapevole e deriva da un'ambiguità diffusa. La fattività è uno stato o una qualità, non un tipo di consapevolezza e così esclude praticamente qualunque senso di ambiguità. Eppure la tardività e la fattivtà allo stesso modo derivano dall'assunto che tutto ha un significato o piuttosto che vi è un senso in ogni cosa. Se vi è un senso in ogni cosa, allora ogni temporalità è ridotta alla coscienza del passato e l'invenzione diviene impossibile. Il Dr. Johnson, il miglior critico letterario della nostra lingua, insisteva che l'essenza della poesia fosse l'invenzione. La tardività minaccia la poesia eppure può spronarla; la fattività, una volta che le venga concessa piena influenza su di noi, distrugge la poesia, rendendo irrilevante il tropo [...].
Intendo ora tentare uno studio completo della fattività come l'agente paralizzante che ostacola il revisionismo ed in tale studio la Bibbia avrà necessariamente un interesse centrale. Qui io sono interessato alla funzione della critica intesa come il gesto di un agonista in lotta con la fattività e voglio in particolare porre enfasi su due aspetti di quella funzione: la formazione del canone e la profezia. Aspetti che si sovrappongono ma non coincidono. I maggiori critici, quali Johnson, Coleridge, Hazlitt, Ruskin, Emerson e Pater, perfezionano e ampliano il canone, mentre contemporaneamente profetizzano cambiamenti nell'uso e nella comprensione del canone, cambiamenti che non tardano a manifestarsi, ma piuttosto estendono la piena consapevolezza di ciò che veramente è la contemporaneità. Coleridge e Hazlitt avevano reazioni emotive a Wordsworth e alla sua poesia violentemente differenti, ma condividevano totalmente il senso profetico e canonico che Wordsworth stesse veramente inventando la poesia moderna. Emerson nonostante le sue riserve successive e moderate, vide e disse immediatamente e con precisione proprio ciò che Whitman stava facendo nella prima edizione di Leaves of Grass (Foglie d'Erba). Se Wallace Stevens ha soppiantato Eliot e Pound, in larga misura, o se John Ashbery sta soppiantando Robert Lowell e John Berryman, tali avvicendamenti sono movimenti tipici della critica, che deve proteggere e tuttavia correggere il canone pur profetizzando accuratamente i tipi di discernimento adatti al tempo, proprio come fosse un flusso che ci sta sommergendo e penetrando.
Sento e leggo continuamente lamentele sul fatto che la critica è troppo preoccupata di se stessa e si dedica troppo poco alla chiarificazione di opere più fondamentali che non la stessa critica. Invece io sono indotto alla contro-lamentela che la critica è ancora troppo poco preoccupata di sé, poiché manifesta troppa ansietà per quanto riguarda il metodo. La ricerca della critica contemporaneo è ricerca di un metodo e tale ricerca è vana. Non c'è altro metodo all'infuori di te. Tutti coloro che vanno in cerca di un metodo che non sia loro stessi troveranno non un metodo, ma qualcun altro che essi scimmiotteranno e involontariamente derideranno. La poesia e la narrativa condividono con la critica il mistero che la speculazione post-strutturalista tenta di negare: la scintilla che chiamiamo personalità o il peculiare, che in metafisica e teologia una volta era chiamato "presenza". Infine noi leggiamo un critico invece di un altro per le stesse ragioni per cui leggiamo un poeta o un romanziere piuttosto che un altro. Egli (od ella) ci si impone poiché vi ritroviamo qualcosa che non possiamo dimenticare, in modo molto intimo. Io ho una memoria straordinaria per ciò che leggo, eppure ricordo Wallace Stevens o Nathanael West o G. Wilson Knight in modo molto diverso da come ricordo Robert Frost o Thomas Pynchon o Lionel Trilling. Questa differenza, questa memorabilità, io la attribuisco al maggior successo della lotta revisionista contro la fattività di Stevens, West e Wilson Knight, una lotta contro e contemporaneamente all'interno della fattività. Ma per descrivere proprio come qualunque scrittore revisionista lotti contro la fattività dal suo interno, devo far ricorso agli autentici precursori di un agone così dialettico. Questi precursori erano la stirpe dei profeti ebrei, da Elijah al Gesù dei Vangeli, che mi riporta a J., allo Yawista, al fondatore testuale sia di questa fattività che dei profeti che ne emersero [.].
La mente popolare è tanto abituata ad essere rinchiusa nella fattività da essere del tutto ignara di qualunque pulsione verso una forma battagliera di fattività. Più di una preoccupazione è causata alla critica dalla pulsione ad idealizzare la letteratura, il che la porta troppo frequentemente all'idealizzazione della fattività. La maggior parte delle esaltazioni letterarie di tradizioni, per non parlare della tradizione per eccellenza, sono atti-mascherati di adorazione rivolti alla fattività letteraria. Potrei (nuovamente) citare qui l'Eliot di Tradizione e talento individuale, dove la fattività si maschera da "ordine simultaneo" o atemporale di grandi opere, ma sono costretto a rivolgermi a quelli che mi hanno colpito più intimamente, a due dei miei stessi eroici precursori, M.H. Abrams e Northrop Frye. Ciò che appare in Abrams come "eterocosmo romantico" e in Frye come "universo verbale" sono ancora due versioni sottilmente velate e idealizzate di fattività. Dal momento che Abrams e Frye sono due legittimi portavoce del Primo Romanticismo mi addolora dire che essi denunciano Coleridge e Blake come grandi tessitori di fattività, pericolosi idealizzatori di realtà letterarie aspre e spiacevoli.
La letteratura è un modello discorsivo oltre che linguistico e nessun discorso (ahimé!) è autonomo. E' vero che poesie forti amano ed odiano altre poesie forti, per così dire, molto più di quanto non reagiscano ad altri modelli di discorso. Nella lotta contro la fattività, contro la forza limitante della poesia precedente, una poesia non ha altre armi se non le prese di posizione di libertà e, per una poesia, queste devono essere tropi. Tale limitazione costringe l'argomento della poesia tardiva, ora accantonata dalla Decostruzione come l'aspetto referenziale scartato di un testo compiuto, ad assumere una curiosa colorazione, che io non sono stato in grado di spiegare con soddisfazione e comprensione di quasi nessuno. Quando ho detto che una persona, un luogo, una cosa o un evento per essere accolti in una poesia devono essere trattati come se già fossero una poesia, mi si è giudicato come se stessi proclamando l'autonomia della poesia. Eppure io pensavo di stare esprimendo l'autonomia della poesia. Eppure io pensavo di stare esprimendo una limitazione della poesia, piuttosto che stare celebrando uno dei suoi poteri. L'ego può non essere ciò che Nietzsche una volta chiamò un incontro (rendez-vous) di persone, ma persino la poesia più forte in realtà è un incontro di poesie. Ciò significa che anche la poesia meglio organizzata e rifinita è necessariamente frammentaria. La fattività riduce non solo l'originalità e l'autonomia, ma anche l'unità e l'auto-sufficienza, qualità eterocosmiche che coloro che idealizzano la letteratura si presume scoprano prima o poi.
Poiché ho scelto la fattività di J. come mio esempio di quel concetto letterario, mi sento costretto ad illustrare il rifiuto idealizzante della fattività da parte di un critico della Bibbia quale N. Frye. Il grande codice: la Bibbìa e la letteratura è il libro con cui egli porta a compimento il suo lavoro, durato una vita, sul suo modello letterario prediletto, l'anatomia, e così Frye implicitamente tratta la Bibbia come una vasta anatomia. Niente può essere più liberatorio dal punto di vista immaginativo, ma (ahimé!) nulla si ottiene per nulla e tale liberazione è ottenuta a spese della Bibbia ebraica, che è veramente consumata nel "grande codice artistico" alla Blake di Frye, una fiera fornace degna degli autori dei Quattro Zoas e Agghiacciante simmetria. Persino la perturbante originalità di J. è fusa nelle fiamme visionario di Toronto. Frye giustamente insiste che "non c'è modo di distinguere la voce di Dio dalla voce del redattore deuteronomico". Circa la nostra capacità di distinguere la voce di J. dalle voci di tutti i suoi redattori, presumibilmente la risposta di Frye sarebbe la seguente: "E' futile anche cercare di distinguere ciò che è 'originale' nella Bibbia, le voci autentiche dei suoi grandi geni profetici e poetici, dalle aggiunte e corruzioni seriori che talvolta si presume li circondino. I curatori sono troppo per noi; hanno polverizzato la Bibbia fino al punto che qualunque sintomo di individualità ne è quasi stato espulso... Siamo talmente succubi del concetto moderno che tutte le qualità, che ammiriamo nella letteratura, derivano dall'individualità di un autore che è difficile comprendere come questa implacabile frantumazione dell'individualità potrebbe produrre più vivacità e originalità che non meno. Ma così sembra essere". La posizione di Frye, qui, è coerente con le sue teorie critiche e del tutto opposta alla mia lettura della Bibbia ebraica. Frye qui è stranamente libero dalla fattività di J., ma tale libertà è acquisita col servaggio ad un'altra fattività, le tradizioni tipologiche della religione cristiana, che imprigionarono anche William Blake. La Bibbia di Frye, come egli sostiene, è la Bibbia cristiana, con il suo Vecchio e Nuovo Testamento, così polemicamente chiamati. Io stesso preferirei chiamarli, in modo non polemico, il Testamento Originale e Tardivo, poiché sono d'accordo con i miei antenati nel rifiuto di vedere il Testamento anteriore come qualcosa che viene "compiuto" nel seriore.
Ma non vedo tanto, tutto questo, come una diatriba tra religioni; lo vedo piuttosto come una lotta tra teorie critiche. Frye è interessato alla letteratura nella sua totalità, io invece sono principalmente interessato al lavoro dei poeti individuali, quelli abbastanza forti da aprirsi a forza un varco nella fattività per entrare in un canone che è completo senza di loro e che in qualche modo è costretto ad aver bisogno di loro. Frye ha formulato ciò che egli chiama un "mito di partecipazione", che esclude ogni negazione dalla comprensione della letteratura. I modi di negazione linguistici e retorici, versioni moderne della negazione hegeliana, mi interessano meno di quanto non mi interessi Frye, ma la negazione, come difesa psichica contro la tardività in Shelley o in Freud, è necessaria per spiegare l'elemento agonistico presente in poesia, che l'idealismo di Frye nega di fronte ad un'evidenza senza fine. L'ambivalenza per Frye è solo un episodio sorpassato da un desiderio poetico, ma il desiderio di ogni poeta individuale è di sorpassare i precursori che hanno creato lui attraverso la Scena dell'Istruzione. Il San Paolo di Frye è una sottigliezza nell'interpretazione dei profeti; il Paolo che vedo io è un forte mislettore, un efebo abbattuto sulla via di Damasco dalla luce della necessità di misleggere, che divenne la musa della sua stessa originalità. Non ci sono tipi né archetipi; c'è la fattività e c'è il revisionismo ed essi combattono o per raggiungere un punto fermo o perché la fattività ceda un nuovo nome al revisionista.
Lasciatemi confrontare Frye e Bloom su un unico testo, il racconto di j. di un combattimento tra Giacobbe ed un essere degli Elohim senza nome, nel Genesi 32; 26. Ho già scritto due volte di questo episodio in La Rottura dei Calici e nell'introduzione a un volume di saggi sulla Bibbia di Martin Buber, così intendo essere breve qui a tale proposito. In verità desidero imitare la stringatezza di Frye come meglio posso, poiché qualunque sia la mia posizione, ammiro l'atteggiamento e lo stile di quel grande critico. Ecco qui l'ultima frase del VII capitolo de Il Grande Codice di Frye: "La deduzione per il lettore sembra essere che l'angelo del tempo a cui l'uomo si avvinghia fino all'alba sia tanto un nemico quanto un alleato, un potere che illumina e paralizza allo stesso tempo e sparisce solo quando tutto ciò che può essere esperito è stato esperito". Al contrario io direi: "L'angelo della morte, a cui l'uomo si avvinghia fino all'alba, è un nemico, un potere che paralizza e sparisce solo quando una morte sovrastante è stata allontanata e si è conquistato un nuovo nome per la tenacia dell'uomo come agonista". La lettura di Frye ha la virtù della equilibrio, il che io chiamerei, in questo contesto, un trionfo della fattività della Bibbia su Frye, o più semplicemente Frye ha equilibrio, j. no. Frye tralascia il terrore dell'alba da parte dell'angelo, e la vera ferocia della lotta durata tutta la notte. L'essere che grida disperato: "Lasciami andare poiché fa giorno!" non è un alleato, e precisamente ciò che Giacobbe ha rifiutato di subire è letteralmente la morte. E' forse severo, da parte mia, dire che qui la lettura idealizzante o tipologia, anche se fatta ,da un maestro, non è in alcun modo totalmente adeguata alla forza del testo di j.?
L'ultima idealizzazione di Frye è sempre la sua fiducia commovente che la "letteratura immaginativa" non sia una "struttura d'ansia". Egli conclude Il Grande Codice dicendo che l'uomo costruisce strutture d'ansia attorno alle sue istituzioni religiose e sociali. Ciò che Frye non può o non vuole vedere' è che le istituzioni artistiche (compresi i canoni, le accademie e le tradizioni) sono anch'esse necessariamente strutture d'ansia. La Bibbia, come qualunque altro canone letterario, è un'ansia compiuta e non un programma per alleviarci dall'ansia. Perché che cosa potrà mai essere un canone, una accademia o una tradizione se non ha su di noi qualche residuo di autorità? Tale autorità è ora solo retorica, ma la retorica di autorità della Bibbia, in j. o nei profeti, è molto più individuale e personale di quanto Frye, in teoria, non le permetta di essere. Come è riuscito Geremia, un profeta che sarebbe gentile chiamare "disfattista", a imporsi sul canone? L'unica risposta realistica è quasi certamente un'acuta individualizzazione di voce. Le sofferenze di Geremia sono divenute esemplari solo perché sono memorabili, poiché drammatizzano, con impressionante durezza, il dilemma senza fine del popolo di Geremia: preso tra rivali per tutto il corso della storia come ai giorni nostri; sempre minacciato, come ai nostri giorni, da un popolo molto più numeroso e ostile che lo accerchia. Frye dice, meravigliosamente e penso in modo molto accurato, che "Il profeta può avere torto o ragione, essere ragionevole o irragionevole: ciò che non fa è delimitare". La profezia, secondo il significato ebraico, in verità è oratoria senza riserve. Il nevi pronuncia la sua davar o parola, che è anche quella di Yahweh. Ciò che è antichissimo e molto indietro nel tempo nel nevi è portato alla luce e presentato direttamente come un atto. E' per questa ragione che il nevi è stato generato-consacrato, come dice Geremia, dal grembo fino alla morte. Ma chi mai ascolterà una voce impersonale e generalizzata? Penso che Frye perda qualcosa del significato di davar, quando Geremia o Amos o Isaia proclamano "Così parla jahweh". Paradossalmente l'evidenza dell'autorità della voce, del fatto che la parola sia inviata da jahweh, è che la figurazione sia del tutto personale e magnificamente individuale. Un profeta scrittore viene accettato solo per il suo potere retorico e questa capacità di fare tropi deve sempre aprirsi la strada a fatica contro la fattività di Mosé, il che significa contro la fattività di j. [.].
La fattività letteraria, così come cerca di descriverla, assimila il Superego all'Id e rende i testi più potenti, una specie di nostro interno impulso tanto quanto uno spirito di vendetta in parte interiorizzato. Quando il presente è del tutto trasformato nel passato, nell'agone della lettura, allora la fattività ha trionfato sul sublime del lettore, il che significa che ha svuotato la critica della sua funzione. Tanto potente è la fattività di Freud che ci impedisce di vedere fino a che punto la sua autorità riduttiva ha accresciuto la nostra incapacità di essere critici forti[.].
La funzione della critica, al giorno d'oggi, così come io la concepisco, non può essere che quella di liberarci dalla bruta fattualità del nostro rapporto di dipendenza dalla cultura, sia che la cultura sia biblica oppure freudiana. Soltanto la critica ci può insegnare a smettere di rendere letterari i nostri dilemmi culturali. L'educazione, nel suo aspetto più autentico, si incentra sul preciso progetto di mostrare allo studente proprio quale grado di libertà gli è possibile nel rapporto con l'attualità presente del passato culturale. L'educazione più critica non riuscirà però mai a convincerci del tutto che le figurazioni del passato sono figurazioni e non entità letterarie. Jahweh e il Superego continueranno ad ossessionarci, sia che noi siamo convinti o no che sono ironie o sineddochi o qualunque altra cosa. Il critico forte non arriva ad esorcizzare le tonalità del nostro involontario immaginare, ma sta sulla soglia della casa impestata della cultura per ammonirci ad entrare, non solo come i più attenti degli spettatori, ma come agonisti armati delle stesse armi del passato, le sole armi che ci difenderanno in modo onorevole dalla forza del passato. (Traduzione di D. Carpi).
Intervento di Ezio Raimondi.
Mi limiterò ad alcune (poche) riflessioni non essendo certo di percorrere la strada che bisogna percorrere: le strade sarebbero molte e da battere nello stesso tempo. In questo caso mi accontenterò di alcune considerazioni, cercando, prima di tutto per me e poi per coloro che mi ascoltano, di vedere se si riescono a definire alcune prospettive che nascono da ricerche convergenti, anche se ognuna per una sua propria via. E di qui cercherò di dedurre qualche cosa che valga in merito al rapporto tra lettura e tradizione.
Comincerei, prima di fare le mie considerazioni, con il dire che varrebbe la pena di riflettere sulla frase che apre il libro di Bloom. la Rottura (se così si può dire) dei vasi, dove Bloom sostiene che una poesia è scintilla e atto e che la critica è essa stessa scintilla e atto. Deduco immediatamente che, quando parliamo di lettura e interpretazione, dovremmo muoverci in questa direzione, operando, ormai come necessaria, una revisione tanto del concetto di tradizione ;(e ciò appariva chiaro anche in ciò che diceva poco fa Bloom) quanto anche del concetto di lettura in rapporto a quel termine di " interpretazione " (di "ermeneutica"), nel quale ci riconosciamo tutti senza intenderci.
Quando Bloom parla di fattualità, credo che ritorni, se non sbaglio, a uno dei motivi del ciclo lungo della nostra letteratura e della nostra critica letteraria. Ci troviamo ancora, con la scienza a fianco, a dovere dibattere il nostro rapporto con i fatti e le risposte che sono state date nella cultura non soltanto europea, dal primo al secondo Novecento. Essendo probabilmente il primo tanto più inventivo del secondo, noi siamo i tardi-venuti rispetto al primo Novecento, e il dibattito che ci portiamo a fianco riguarda la risposta da dare alla domanda " che cosa sono i fatti? ", i" i fatti parlano da soli o debbono parlare in qualche altro modo? ". Simbolismo e fattualità sono l'alternativa che noi continuiamo a portarci dietro, magari travestita oggi con la riscoperta, che trent'anni fa sembrava impossibile (almeno nella tradizione italiana), dell'importanza e della modernità dell'allegoria, con o senza Benjamin. Ho la sensazione che quando Bloom riprende questo discorso riproponga quel tipo di dibattito e di dialettica anche nei confronti degli amici come Paul de Man, Derrida, e magari un certo Heidegger, perché continuerei a dire che altro è l'Heidegger letto attraverso Derrida e altro è l'Heidegger letto attraverso tradizioni germaniche, o di altra natura, non necessariamente passate attraverso la fenomenologia di tipo francese. Ho la sensazione, anche (butto lì; si tratta di temi che poi dovrebbero essere approfonditi) che insieme con il dibattito sulla fattualità in rapporto all'" altro " sia in gioco anche il problema della totalità e della frammentazione (tema uscito anche dal discorso di Bloom). Il che vuol dire, anche il rapporto tra " dialettica e dialogicità ", che non sono necessariamente la stessa cosa; per lo meno io amerei porre il discorso su " lettura e tradizione " dentro questi binari, che sembrano tornare indietro, ma che forse danno invece un senso anche a ciò che stiamo vivendo, come piccoli o grandi operatori della parola, nella nostra attività quotidiana. Il primo modo per rifiutare un'idea troppo semplice della fattualità è di tornare un poco anche indietro; in questo caso non già per il desiderio di tornare ai padri, ma per prendere la rincorsa al fine di avere una sorta di distanza critica rispetto al presente: in questo caso come diceva Bagni, il passato ci mette davanti, non ci porta semplicemente indietro.
A questo punto sarebbe interessante vedere come si possano porre vicino le operazioni recenti, e non soltanto recenti, di Bloom e il contributo che egli ha dato, che io credo importante, per un'idea diversa della tradizione, rispetto anche ai testi eliotiani e simili (Curtius ecc. ecc.) e quello che per un'altra strada, più dentro l'accademia e meno dentro la storia anche della poesia militante, è venuto facendo Jauss in questi ultimi anni. Se io guardo un suo libro come quello dell'82 (non quello appena tradotto da Einaudi, che si riferisce a un periodo di molto antecedente, ma quello che, significativamente, si intitola Esperienza estetica ed ermeneutíca letteraria) trovo che la prospettiva di Jauss, con un lessico molto diverso ma con parecchie citazioni in direzione di Bloom, possa avvicinarsi al discorso di questi sull'influenza. Ciò che si pone oggi, come urgenza, è la definizione reale, in primo luogo, di un'ermeneutica letteraria, che non sia soltanto un esercizio mimetico e ironico di operazioni linguistiche già date e che sia anche qualche cosa di più delle vecchie operazioni retoriche, e poi l'esigenza in secondo luogo, di un'ermeneutica letteraria, che prendendo finalmente consapevolezza dei suoi mezzi e delle sue operazioni (saltando, insomma, al di là da Gadamer), intenda di nuovo ritrovare il senso diretto dell'esperienza, cioè di quel fare che è il capire e il porsi in rapporto con qualsiasi testo.
Non ho qui il tempo di andare molto per le lunghe, ma mi ha sempre sorpreso una frase del vecchio Schleiermacher, che giustamente Jauss, ripropone e che non suona, nelle conseguenze, molto diversa dalla frase che ho citato, traducendola malamente, di Bloom. Schleiermacher diceva: ogni atto del comprendere è il capovolgimento di un atto del parlare. Parlare poi in tedesco è reden. E Heidegger ha detto tante cose straordinarie proprio su questa idea del parlare come attività.
Jauss in una formula accademicamente più colloquiare (il discorso di Bloom è sempre molto bloomiano, bisogna passare attraverso la sua persona, non lo si può mai ignorare), dice che dobbiamo liberarci per sempre da una nozione metafisica e sostanzialistica della tradizione. E' pur vero che Jauss, a questo punto, introduce, secondo il lessico tedesco, le nozioni di storicità e temporalità, che possono in qualche parte avvicinarsi al termine di fattualità, ma un'analisi adeguata, che io posso intuire ma che non sono in grado di fare, consentirebbe tuttavia (penso) di separare di nuovo i due momenti. Ora, con prospettive di questo tipo, emerge (e Bloom credo sia più che d'accordo) che non dobbiamo più parlare della tradizione, ma che dobbiamo parlare di che cosa intendiamo noi oggi per tradizione, di che cosa vogliamo fare con questo termine: se vogliamo esorcizzare la temporalità o se vogliamo vivere nella temporalità. Dobbiamo, inoltre, vedere se il termine di tradizione abolisce la nostra frammentazione o a mette in discussione, se cioè tradizione è un concetto mascherato e difensivo di totalità o è altro. Dire che dobbiamo rinunziare a un'idea metafisica della tradizione vuol dire rinunziare a qualche cosa che ci tutela e assumete l'ipotesi di qualche cosa con cui ci dobbiamo misurare, salvo poi a introdurre quel problema che è un problema capitale, del " venire tardi ". Ho la sensazione che dovremmo cominciare a fare un'analisi, non soltanto in senso storico-filologico, della sensazione del venire tardi: non soltanto la sensazione di un tempo che è passato, del mundus senescit, ma proprio di noi che siamo venuti troppo tardi e che non abbiamo più nulla da dire.
E' chiaro (ed è un merito che va ascritto a Bloom più che ad altri) che non si può parlare di tradizione in senso moderno se insieme non vi si introduce l'idea, e forse l'angoscia (la nevrosi e tutto quello che voi volete) dell'essere venuti troppo tardi, di uno spazio stretto, di uno spazio dove, mentre si amplia l'esperienza del passato diminuisce paurosamente lo spazio di attesa, cioè il futuro. E' chiaro che tutto questo fa parte del nostro essere e fa parte del nostro essere al punto che solo dalla metà dell'Ottocento i grandi scrittori cominciano a parlare lucidamente di "tradizione del nuovo", che è termine antitetico a tutto ciò che tradizione significava in altre età. Dobbiamo misurarci con tutto questo, che poi è il senso della storia, perché la storia staccata è qualche cosa che contempliamo, mentre la storia vivente è qualche cosa che ricordiamo: è la nostra memoria. Non a caso Nietzsche parlava della memoria e della dimenticanza, perché lì di nuovo è in discussione il termine di tradizione. Che cosa può essere, allora, la tradizione per noi, oggi, se vogliamo usarla in senso non sostanzialistico ma euristico?
In un libro, che segue di qualche anno quello che ho citato di Bloom e che sintitola Forme dell'attenzione, un critico inglese di molta ironia, ma di grande finezza, F. Kermode, ha discusso proprio del problema della tradizione e ha visto (ma era cosa che si era cominciata a rivelare a molti) che la tradizione è definita innanzitutto dal consenso di coloro che parlano della tradizione, cioè è qualche cosa che stabiliamo noi, è al limite (quando si definisce come gerarchia) un canone, un ordine di riferimento. Un ordine di riferimento (ed ecco la seconda parte del discorso) non per imitare ma per inventare, poiché l'altro concetto (e Bloom probabilmente l'ha posto in discussione più di tutti gli altri) che viene di nuovo fuori è il vecchio concetto rinascimentale e retorico della " imitazione ". Che cosa vuol dire imitare? che cosa vuol dire continuare? che cosa vuol dire dialogare? Jauss, da tecnico, ha detto che bisogna riproporre in un modo nuovo la triade che attribuiamo sempre al leggere e all'interpretare, cioè il capire, lo spiegare e l'applicare. Quando Bloom parla della critica e del leggere come di una scintilla, come di una specie di fuoco (anche Benjamin, però, aveva parlato di fuoco) e soprattutto come di un'attività, stringe insieme questi diversi momenti. Noi, camminando più piano e con meno vigore di Bloom, possiamo poi anche distinguerli, ma ciò che importa a questo punto è che probabilmente si capovolge il rapporto tra i due termini: leggere e tradizione. Non leggo, perché ho una tradizione. Ho bisogno di stabilire una tradizione per leggere, che è cosa molto diversa. Dice Jauss (Bloom l'ha dimostrato in concreto) che la tradizione è sempre una selezione, è una scelta che si fa; e questo è già un modo per uscire dalla fattualità della tradizione. E'un orientamento.
Gli ermeneuti dicono che non si può capire se non si ha prima un pregiudizio. Si potrebbe dire che il pregiudizio è dato dalla nostra stessa storicità, dalla nostra (usiamo pure il termine fenomenologico) einstellung quando operiamo una certa selezione; qui però mi sposterei da Jauss a Bloom, perché quando Bloom parla di selezione, di formazione di un canone, intende delle scelte poetiche, intende delle risposte precise, intende un conflitto coi testi e con le generazioni precedenti che hanno stabilito altri tipi di canone.
Occorre ricordare (poi il problema è di vedere che cosa può accadere nelle nostre diverse tradizioni) che cosa avviene nel passaggio da Eliot a Frye a Bloom, sulla linea della grande poesia anglosassone, e tutti gli spostamenti che si operano. E' ciò che tradizionalmente accade nella grande critica figurativa e forse anche, ma questo è un po' difficile da definire da noi, nella letteratura. Voglio dire, in conclusione, che la tradizione è la nostra risposta a un passato nel presente, dietro il quale c'è un'altra questione ancora più radicale: il problema della nostra memoria. La nostra memoria è soltanto nostra o è qualche cosa di (senza necessariamente riferirci a Jung) collettivo. Quale è la memoria del mondo presente? E la dimenticanza, nietzschianamente parlando, basta da sola per cancellare il problema della memoria? Il concetto di tradizione va legato anche a tutto questo. Gli uomini possono vivere senza memoria? Possiamo leggere un testo (un testo, in sé, si badi bene) senza memoria? Siamo usciti dallo strutturalismo di tipo grafico-spaziale, perché sappiamo che un libro non ci sta davanti come una immagine, ma è un seguito di parole, e per capire le ultime dobbiamo ricordare le prime. E' necessario uno sforzo dalla nostra parte: se non c'è questo sforzo la lettura è blanda non è la lettura agonistica, non c'è un senso. Il senso è un divenire nel testo, perché è dato da tutta l'attività del testo. Tolstoj aveva ragione quando diceva che per rispondere alla domanda: " cosa hai voluto dire con Guerra e Pace? " avrebbe dovuto riscrivere Guerra e Pace. Era come dire: ",lo dovete leggere tutto, il romanzo, ed è l'atto totale, con lo sforzo che voi dovete fare per muovervi nella complessità dei suoi rapporti, che porta a una certa, sua, comprensione ".
Non c'è, però, soltanto questa memoria. Ha ragione Bloom. La parola non è soltanto fattualità. E' una cattiva filologia da vecchio positivismo quella che crede che la parola sia a una dimensione. In questo caso anche Wittgensteín sarebbe d'accordo con Bloom nel dire che la parola è sempre un'entità profonda e che i grandi problemi si decidono nel profondo, non nella superficie.
Ho la sensazione che siamo usciti dallo strutturalismo (pur continuando a godere di una larga serie di possibilità che esso ci ha offerto), senza dover necessariamente arrivare (ma bisogna poi intenderci anche su questo) alla ideologia della decostruzione. Ne siamo usciti perché abbiamo rinunziato a una idea di cattiva fattualità e siamo ritornati all'idea che i fatti hanno sempre dei significati che vanno di là da loro stessi, perché le relazioni dei fatti non fanno parte dei fatti, con la necessaria conseguenza che ciò che chiamiamo conoscenza letteraria arriva a configurarsi, per noi, in ultima analisi come una attività, un'energia. Attività, energia per la quale la memoria, come magazzino culturale, è fondamentale, intendendo per memoria lo sforzo di un confronto, che definisce, in ciò che abbiamo, ciò che non era ancora o ciò che era stato e di cui ci eravamo dimenticati.
Tradizione e lettura indicano due poli decisivi (se siamo in grado di muoverci di là da loro e non di qua da loro) di quella che può ancora, se ha un senso, essere un'attività critica, una volta riconosciuto (perché questo è il sottinteso) che l'attività critica non è l'attività poetica. Ha però una cosa simile all'attività poetica ed è che deve muoversi verso il nuovo; deve anch'essa inventare se stessa; deve anch'essa, nelle proprie forme e nella propria modestia, non rinunziare a quel piccolo margine che è la sua invenzione, cioè la sua capacità di rispondere. Sarebbe troppo ovvio a questo punto che facessi anche il nome di Bachtin; troppo ovvio, perché anche Bachtin rischia di diventare una di quelle nozioni generiche e tradite, ma chi più di Bachtin ha sottolineato che il leggere e il capire o sono creativi o non sono niente? Dobbiamo cominciare anche a parlare di un misreading che non è questo (è un altro misreading, è il misreading di qua dal leggere, non il misreading che fa parte veramente del leggere), che è la continuazione di una esperienza e chi più di Bachtin ha detto che la critica letteraria forse è ancora all'inizio, perché deve imparare a pensare in grande sui grandi temi. Anche se Bloom, col suo partire dai romantici per giungere sino a noi, ci dà pure lui, in verità, un esempio di pensare in grande.
A questo punto però (anche se qualcuno può farne una teologia, anche se qualcuno può farne un mito) cerchiamo di trarre, da quanto detto, una conseguenza euristica. La tradizione che Bloom discute (attraverso la quale discute il Proprio presente), è una invenzione, è una decisione presa e poi usata e dimostrata valida nell'uso, perché questa è la cosa più importante. C'è una critica che abbandona i fatti per paura dei fatti (e sembra antifattualistica ma è ancora fattualistica per negazione) e c'è una critica che combatte duramente coi fatti, con le cose, con le parole, coi testi per ricavare l'altro e Bloom certamente appartiene a questa seconda linea.
Vorrei proprio per questo ricordare una frase (che ricordava anche Jauss) di Heidegger (torniamo ad Heidegger, qualChe Volta: non fermiamoci a Gadamer). Egli dice che per capire un testo bisogna capire l'altro e spiega: questo " altro " deve essere costituito così da colpire proprio ciò su cui il testo spiegato riflette. E' un enunciato complesso, ma che dà da pensare. Spiega perlomeno perché, per arrivare a un certo poeta romantico o per scoprire Whitman (ma io parlo semplicemente da amateur: gli specialisti diranno meglio di me) Bloom abbia dovuto compiere tutta questa strada dell'" altro ". Dobbiamo deciderci a riconoscere che l'interpretazione:(il leggere) è un'attività, che questa attività è legata a degli schemi antropologici generali: la temporalità, la storicità, la fattualità, la contingenza, la totalità e la frammentazione; dobbiamo finalmente stabilire che con l'interpretazione non introduciamo di soppiatto una totalità, che è soltanto un nostro desiderio: mettiamo in discussione la nostra frammentazione. Scoprire che cosa c'è nella frammentazione forse è un altro modo per intendere quello che Heidegger chiama "l'altro" ed è qualche cosa di ciò che Bloom ci ha insegnato a fare.
Già in una discussione precedente all'amico Almansi, che diceva "le categorie di Bloom sono straordinarie, ma non traducibili", io opponevo che se leggiamo Bloom, ci dobbiamo innanzitutto sforzare di chiederci che cosa possiamo tradurre per noi, nei problemi nostri, delle operazioni di Bloom. Si dice sempre che la critica è un tradurre, guai a coloro che credono che il tradurre sia facile. Qualche volta è più difficile dell'inventare, ergo la domanda che io pongo è questa: che cosa, nella nostra attività quotidiana (anche su altre aree), vale del discorso di Bloom? E la faccio, assumendoci la responsabilità di tradurlo e di renderlo pratico. Con il rischio, anche, di fraintenderlo, ma quando il fraintendimento genera qualche cosa che prima non sapevamo potrebbe arrivare ad appartenere a quel " leggere forte ", di cui ha parlato Bloom, e che potremmo anche tradurre (in un altro lessico) con " leggere responsabile ", se per responsabilità intendiamo il confronto, senza cedimenti, con il testo (con l'altro). Il leggere responsabile è sempre il tentativo attraverso un testo di dire al testo stesso " fatti in là, perché io ti faccio diventare anche altro e quell'altro è passato anche attraverso di me ". Grazie.
Intervento di Aldo Tagliaferri
Mimesi di rappresentazione e di impossessamento nell'agone potrebbe essere il titolo di questo mio intervento. La mimesi di rappresentazione, che è fondamento classico dell'arte poetica, secondo la tesi etnologica di René Girard è avversata da Platone perché essa prende il posto della mimesi di impossessamento, proseguendo in forma di pericolosa eco quella causa di crisi sociale che genera l'istituto del sacrificio umano, il ruolo del capro espiatorio, la regalità, la divinità e tutta la nostra
civiltà occidentale.
Secondo Girard, questa teogonia mina alla base la grande costruzione metafisica perché la rende consapevole delle proprie radici sacrificali omicide. Platone, cercando di nascondere le tracce sacrificali presenti nella poesia e nel mito, e in particolare nella tragedia e nel racconto teogonico, sta costruendo la nuova divinità assoluta, il logos, che si fonderà con il dio del monoteismo ebraico. Nel frattempo la mimesi sembra divenuta, con l'aiuto di Aristotele, un fatto puramente estetico: è sempre confinata nell'ambito della rappresentazione artistica e non viene riconosciuta nelle contese private o politiche.
La mimesi di impossessamento, che nella prospettiva etnologica proposta da Girard costituisce la causa delle crisi sociali primitive che trovano nel sacrificio di un membro della tribù il capro espiatorio e il loro momentaneo placarsi, concerne la concorrenza nell'appropriarsi di un oggetto considerato desiderabile perché appetito dall'altro (il concorrente). Ma Freud pretende di poter determinare obiettivamente l'oggetto originario, laddove, in Totem e tabu, lo privilegia in base al complesso edipico. L'oggetto appetibile originariamente è quello già investito dall'onnipotente desiderio del Padre capo dell'orda: si deve trattare della madre e, in generale, delle femmine del Padre. Su questo Girard non concorda.
Ma c'è un altro oggetto del desiderio indotto nei figli sottoposti al capo orda, ed è ciò che può riconciliare tra loro le posizioni di Freud e, quella, polemica nei suoi confronti, di Girard.
Ciò che i figli vorrebbero possedere è l'onnipotente desiderio del Padre, ed è questa onnipotenza a fondare nei figli l'identificazione delle proprie scelte di desiderio con il desiderio dell'Altro: gli oggetti del desiderio del Padre-Altro sono strumenti di esercizio di una onnipotenza e da essa ricevono, agli occhi dei figli, il loro irresistibile fascino. Infatti il mitologico Padre freudiano conserva nei tempi la sua valenza mitica, anche al di fuori dell'orda primitiva e al di là del protodramma preistorico, perché la sua onnipotenza è in realtà la realizzazione dell'onnipotenza infantile, quale si ritrova ontogeneticamente anche nei figli.
L'uomo preistorico, che a colpi di pietra contende con il suo identico prossimo, secondo il paradigma girardiano, il futile Possesso di un fatale oggetto qualsiasi, si batte in realtà perché il concorrente, che non si differenzia da lui, limita la sua onnipotenza interferendo nel suo gesto di appropriazione con un altro gesto specularmente simmetrico. Ciò che rende identici i due rivali e pericolosa la loro stessa identità è il fatto che entrambi devono vedersela con il loro io ideale, ed il doppio di ambedue è ciò che determina il comporsi dei due in una coppia di doppi. Tuttavia quello che le posizioni di Freud e di Girard (del resto conciliabili, come si è detto) non aiutano a travalicare è il discrimine tra mimesi di impossessamento e mimesi di rappresentazione. Incontriamo per la prima volta una critica feroce alla seconda in Platone, e apprendiamo da Girard che il filosofo greco avversa l'imitazione (e quindi l'arte) perché ne avverte e teme il sanguinoso versante nascosto, e rimuove, con essa, le incomode origini infamanti, della civiltà e degli dèi [ R. Giìad Delle cose nascoste sín dalla fondazionedel mondo, Adelphi, Milano, 1983 (éd. originale Grasset, Paris 1978). In particolare si vedano le pp. 31-2].
Dobbiamo ancora scoprire se, come e dove la mimesi di appropriazione e quella di rappresentazione si trovano riunite. Radicalizzando il pensiero di Harold Bloom, possiamo affermare che il suo concetto di misreading, o di misprision, fondamentale nella sua teoria delle influenze e della storia della poesia, scopre e proclama, nel bel mezzo di una tardività della rappresentazione poetica, la mimesi di impossessamento quale impulso potente alla formazione di ogni nuovo poeta forte. La prospettiva entro la quale Bloom elabora le sue tesi può essere estesa, insomma, come qui si vuole suggerire, fino ad investire etnologia. Infatti la reazione del nuovo poeta all'opera del suo precursore non è differente da quella reciproca dei due doppi dei quali abbiamo appena parlato: negare l'onnipotenza dell'altro ed affermare la propria, attraverso l'appropriazione dell'oggetto.
Così la critica letteraria e la storia della poesia giungono a mostrarci come costitutivo dell'atto poetico (ovvero del più perfetto esito della più elaborata soluzione di compromesso - nella accezione freudiana del termine - che la civiltà della rappresentazione conosca) quel surrogato della primitiva appropriazione del desiderio e dell'oggetto dell'altro che è l'agone, il duello all'ultimo sangue con il precursore. Ma questa prospettiva non sarebbe veramente illuminante se non servisse a porre in luce quell'oggetto del contendere in cui si cela il potere affascinante della poesia. Harold Bloom, che per quanto riguarda la psicoanalisi elabora prevalentemente l'influenza freudiana, parla volentieri della Pienezza del Padre [Cfr. H. Bloom, L'angoscia dell'influenza. Una teoria della poesia, Feltrinelli, Milano 1983, paessim], collocandola nella costellazione edipica, in cui la contesa per il possesso di ciò che brilla in un prodotto della parola poetica rischia, inizialmente, di stornare su di sé anche l'attenzione dovuta al tesoro nascosto sotto la posta in palio. Esso è bensì il pleroma, o la Pienezza del Padre, o il Padre divinizzato e caduto, ma è proprio la poesia a ricordarci che questa pienezza, come quella del padre di Hamlet " full of bread ", ucciso proprio mentre era pieno di nutrimento per le "generazioni affamate" [H. Bloom, L'angoscia dell'influenza, cit., p. 14.], ha lo stesso nome del figlio. Il Padre di Bloom va raggiunto attraverso l'inversione di Wordsworth - "The Child is father of the Man" - e la degradazione di dio nella creazione è cantata, con la sapienza psicanalitica che Freud riconosce ai poeti, in un'altra ode di questo autore amato da Bloom: " Our birth is but a sleep and a forgetting ", si è detto che l'onnipotenza del Padre è il vero oggetto dell' agone, scarsamente identificato sia da Freud sia da Girard (il quale, sia detto per inciso, presta particolare attenzione a Totem e tabu, come Bloom). Occorre qui precisare che l'onnipotenza impotente del neonato, il pleroma, trova nell'assoluto potere del padre mitico dell'orda primitiva una illusiva conferma della propria possibilità di realizzazione. Ucciso il Padre, i figli fratelli si accorgono del fatto che l'onnipotenza non si divide. Ma ciò per cui i rivali identici di Girard si batteranno a morte ha già un valore traslato: sta per quell'onnipotenza Paterna che, ripetiamo, a sua volta ha dato loro illusiva conferma della realizzabilità della loro onnipotenza fetale perduta.
Le crisi tribali, determinate dal dilagare degli atti mimetici di appropriazione violenta, sono alleviate e rinviate, secondo la citata tesi etnologica, dall'addossamento della colpa di ogni male al capro espiatorio umano, che diviene conseguentemente sacro e potente anche nel bene attribuitogli della concordia riportata dalla sua morte. Nell'intervallo dilatato del rito del suo olocausto potrà divenire re, sacerdote e dio, con il che avrà inizio il processo di evoluzione della civiltà. Gli stessi re succederanno gli uni agli altri con l'usurpazione e l'assassinio. I poeti forti di Bloom assomigliano molto ai " Re del bosco " di Frazer, i quali, mantenuti dalla comunità, venerati e divinizzati capi spirituali, e al contempo vittime sacrificali che fruiscono di una dilazione, vivono sempre in attesa di uccidere o di essere uccisi e sostituiti dal successore più forte di loro.
A questo punto è il caso di chiedersi cosa possa alleviare le crisi di angoscia e di astinenza in cui versano " le generazioni affamate " della tardività. Il capro espiatorio di questa crisi mimetica letteraria che è l'angoscia dell'influenza appare tuttavia, abbastanza prevedibilmente, il poeta forte stesso. E la ragione per cui, pur svolgendo il ruolo di antagonista usurpatore, il poeta parricida si affaccia al mondo con la consapevolezza di essere la vittima predestinata, è che la sua impresa è comunque condannata in partenza al fallimento. Vincere la morte e l'irreversibilità del tempo, conservare e imporre la gloria del proprio io ideale, salvare la memoria dell'indicibile, sono imprese votate al fallimento, e la poesia può solo riuscire a capovolgere questo fallimento in vittoria. L'onnipotenza impotente del Narciso, che è ciò di cui stiamo trattando, la macchina perfetta che fa del poeta lo schiavo della propria infanzia mitica in cui è racchiusa, ormai inattingibile, la pienezza perduta, può muoversi soltanto attraverso la menzogna, la drammatizzazione della propria contraddizione interna, la creazione di una mitologia di copertura. Vi è uno schermo invalicabile, verso il passato, sul quale possono solo essere proiettate interpretazioni dell'ostacolo, i miti che dicono l'impossibilità di dire.
Per questo il limite che il poeta incontra e che determina la sua sconfitta non è esattamente quel limite che gli consente, pur attraverso il travaglio e l'incerto agone splendidamente descritti da Bloom, di trasformare la sconfitta in trionfo. Il Padre Poetico non è semplicemente un rivale storico da depredare con specifica destrezza, ma impersona invece la copertura di un altro limite, analogamente, a quanto avviene per la legge paterna della barriera contro l'incesto, eretta dall'onnipotenza impotente del bambino che in questo schermo trova riparo dall'angoscia della intollerabile ferita narcisica autoinferta dalla propria incapacità di far ritorno, anche in una formazione di compromesso qual è il coito, all'eden della condizione intrauterina di monarca assoluto. L'angoscia dell'indicibilità del Narciso, della Pienezza perduta, trova copertura e sollievo nella barriera esterna del già detto, nella saturazione dello spazio poetico, nel conflitto edipico con il padre precursore. La reazione all'influenza dell'opera da mis-prendere consente di spostare l'agone dalla coppia ineffabile-parola (onnipotenza-impotenza) a quella mimesi di appropriazione-mislettura (desiderio-divieto esterno). La difficoltà di pervenire a questa tesi, che potrebbe essere considerata una mislettura del pensiero di Bloom, è dovuta soprattutto al fatto che Freud (come, del resto, anche Girard) non ha mai superato l'aporia, la mancanza di passaggio dalla prima alla seconda delle due massime istanze psichiche, il Narciso e l'Edipo [ Questa transizione dialettica è invece al centro del meno noto pensiero di Bela Grunberger. Su questo punto si veda Aldo Tagliaferri, L'invenztone della tradizione, Spirali, Milano 1985, pp. 78-80 ]. Nella genesi di ogni opera forte vi sono un Narciso e un Edipo dell'opera, e l'opera risultante è appunto ciò che della propria opera si può dire grazie alla mislettura dell'opera dell'altro; per cui l'impotenza di dire l'onnipotenza indicibile guarisce in parte camuffandosi in tributo pagato al tabu del già detto dall'Altro, infrangendosi contro la fertile barriera che riduce magicamente una fatale, irrimediabile sconfitta o caduta, subita da un dio, a una difficile tenzone tra uomini.
Intervento di Vita Fortunati
Le più recenti tendenze della critica letteraria, mi riferisco soprattutto ai critici di Yale, pongono in primo piano il problema della tradizione letteraria, perché in essa convergono alcuni nodi irrisolti quali quello dell'originalità nella creazione letteraria e della lettura/interpretazione. Il tema della tradizione è tornato attuale, anche se si tenta di demistificarla, di revisionarla e perfino di rifiutarla. Il termine " tradizione " non richiama più l'idea, suggerita dal suo etimo latino, della trasmissione di una verità, bensì quella del tradimento, del patteggiamento e della manipolazione. Cosi oggi non si parla più di tradizione, ma essa si definisce con altri termini: è " l'angoscia dell'influenza " nelle pagine di Bloom, " la retorica della temporalità " in de Man, l'" ermeneutica dell'indeterminatezza " in Hartman.
Il riproporsi di questo tema ha voluto dire soprattutto fare i conti con il grande precursore T.S. Eliot e con il suo saggio " Tradition and the Individual Talent " (1919): T.s. Eliot è diventato per i critici di Yale una sorta di bersaglio polemico, perché per loro ha rappresentato una cultura e una tradizione critico-letteraria che doveva essere rifiutata e da cui bisognava prendere le distanze. I motivi del dissenso con la posizione di Eliot ce li ha ripetuti oggi Bloom, ma erano già stati espressi in alcune pagine di The Breaking of tbe Vessels del 1982. Eliot sottolineando come nel processo della trasmissione letteraria l'avvento del " talento individuale " fosse qualcosa di organico e producesse solo un lieve cambiamento nel sistema, aveva finito con idealizzare la tradizione. Il suo concetto di un " ordine simultaneo " aveva liberato il tempo letterario dal peso dell'" angoscia dell'influenza " e dall'"ansia della tardività", che sono elementi costitutivi di ogni versione della temporalità. Per dimostrare come per Eliot la visione di questo " ordine simultaneo " costituisca una sorta di meccanismo di difesa, un tropo, una finzione contro il potere demonico del tempo, Bloom cita un illuminante passo da una recensione [Si tratta della recensione dal titolo Reflection on Contemporary Poetry che apparve sulla rivista " The Egoist " nel 1919. Cfr. H. Bloom, The Breaking of the Vessels, The University of Chicago and London 1982, pp. 18-19.] che Eliot scrive nello stesso anno del famoso saggio. Qui il rapporto del poeta con il suo precursore appare molto meno rappacificante, anzi viene descritto con i termini inquietanti tipici dell'edipico " romanzo familiare " di Bloom: " kinship ", "intimacy ", " passion ", " crisis " e così via. Il vero volto della tradizione è per Bloom dunque l'influenza. Non si può più quindi sostenere l'idea di una tradizione lineare, progressiva. La tradizione non è più un monumento,una sorta di deposito in cui le opere si collocano in un armonico equilibrio le une con le altre, ma la tradizione diventa una tomba inquieta, un peso che opprime, da cui il poeta " tardivo " tenta di liberarsi con un atto violento ed agonistico. Una tradizione non più intesa come " trasmissibilità " di verità, ma come lotta per la sopravvivenza. Non si assiste più, come notava anche de Man in una recensione [ La recensione di P. de Man apparve su " Comparative Literature ", 26 (1974), pp. 269-75. E' stata poi Pubblicata come Review of Harold Bloom's " Anxiety of Influence " in Blindness and Insigbt: Essays in the Rhetoric of Contemporary Criticism, 2nd ed. N.Y. 1971. ] a The Anxiety of Inlluence di Bloom, all'integrazione rappacificante tra il talento individuale e la tradizione, non si tratta di una positiva collaborazione tra i due attori presenti nel processo della tradizione letteraria, " chi dà " e " chi riceve "; la tradizione diventa non solo un potere creatore, ma anche una catastrofe, un potere che non assimila, ma esclude. Il confronto del poeta con la tradizione non presuppone una facile sistemazione, ma una lotta che utilizza precise strategie. Inoltre mi sembra che anche oggi Bloom, sempre attento a non cadere nella trappola di una concezione idealizzante della tradizione, abbia messo in risalto i suoi due aspetti. La tradizione, in quanto fissa le regole, contiene in sé un aspetto paralizzante: la verità viene trasformata in canone, in dogma e si fissa in un'immobilità negativa. Per questo è necessario operare sulla tradizione una continua revisione, perché essa, in questo suo processo di cristallizzazione della verità, finisce per falsificarla. Ma esiste anche nella tradizione un aspetto pragmatico positivo: la tradizione è una sorta di verifica, perché se blocca e reprime i poeti deboli, è anche vero che stimola i poeti forti alla lotta per la sopravvivenza e costituisce quindi un elemento positivo per la creazione poetica.
Mi sembra anche importante sottolineare quanto Raimondi ha detto circa il fatto che oggi la tradizione appare legata al problema della temporalità. Negli scritti di Paul de Man, da Blindness and Insight (1971) fino al volume postumo Rhetoric of Romanticism (1984) la tradizione viene legata alla " retorica della temporalità " che costituisce il nodo centrale della scrittura, della critica e della interpretazione. Nel capitolo di Blindness and Insight intitolato Literary History and Literary Modernity la questione della tradizione viene riproposta da de Man in tutta la sua radicalità. La sistematicità e organicità tipiche del sistema eliotiano sono assenti dal discorso di de Man, perché presuppongono una concezione della letteratura intesa come " rappresentazione " che si fonda ancora sulla coincidenza tra " significante " e " significato ". Per de Man la letteratura ha origine nella differenza, nello scarto. La caratteristica della " modernità " di un'epoca è data dall'impossibilità di essere moderna. Non esiste integrazione tra tradizione e talento individuale.
" If history is not to become sheer regression or paralysis, it depends on modernity for its duration and renewal, but modernity Cannot assert itself without being at once swallowed up and reintegrated into a regressive historical process... Modernity and history seem to be condemned to being linked together in a self-destroying union that threatens the survival of both " [P. de Man, Blindness and Insight, oxford University press,,New Haven and London, 1971, p. 151. " Se la storia non diventa pura regressione o paralisi, ciò dipende dalla modernità per la sua durata e il suo rinnovamento; ma la modernità non può affermarsi senza essere immediatamente inghiottita e reintegrata in un processo storico regressivo... Modernità e storia sembrano condannate ad essere legate insieme in una unione autodistruttrice che minaccia la sopravvivenza di entrambe ".].
Scrivere vuol dire narrare l'angoscia della temporalità, della durata, vivere nel loro paradosso. La temporalità è dunque la distanza e al tempo stesso la catena paradossale tra l'autore e il testo, tra il testo e il proprio senso, tra passato e presente. La temporalità come conflitto tra questi elementi diventa il tema centrale della letteratura. La temporalità per de Man non conosce quindi né origine, né progresso, né causalità storica, ma si presenta come motore e al tempo stesso tragico destino di ogni operazione letteraria che si voglia conclusiva. La rete vertiginosa della temporalità non solo costituisce l'aporia del circolo ermeneutico, ma anche una ineluttabile condanna. Si è con de Man molto lontani dall'ottimistica visione di Eliot della tradizione intesa come progresso di conoscenza nel tempo.
" The same fatal interplay goverms the writer's attitude towards modernity: he cannot renounce the claim to being modern, but also cannot resign himself to his dependence on his predecessors - who, for that matter, were caught in the same situation...
The distinctive character of literature thus becomes manifest as an inability to escape from a condition that is felt to be unbearable " [P. de Man, op. cit., p. 162: " Lo stesso fatale gioco reciproco governa l'atteggiamento dello scrittore nei confronti della modernità: egli non può rinunciare alla pretesa di essere moderno, non può neanche rassegnarsi a dipendere dai predecessori che, per quanto riguarda ciò, si trovarono nella stessa situazione... Il carattere distintivo della letteratura si manifesta così come un'incapacità di sfuggire da una condizione che è sentita come insopportabile "].
In questa prospettiva, dove non sembra più possibile una precisa distinzione e classificazione tra passato, presente e futuro, si rimprovera ad Eliot di non lasciarsi interrogare dal passato, perché esso diventa funzionale al presente che viene collocato ad un livello superiore rispetto al passato. Il presente nella poetica eliotiana viene infatti scelto come momento di maggiore consapevolezza e come proprio orizzonte con precise caratteristiche. Il problema della tradizione si lega, come dicevo all'inizio, a quello dell'originalità e dell'autenticità: la tradizione come "facticity", ci ricorda Bloom, è uno stato ineludibile, inevitabile che riduce il concetto di autonomia e di unità dell'opera d'arte e dell'artista. Anche G. Hartmann [G. Hartmann, The Fate of reading and other essays, The University of Chicago Press, 1975, p. 114 e anche Criticism in the Wilderness: The study of Literature Today, New York Haven, 1980.] mette il luce l'impossibilità di creare un'opera del tutto nuova libera da mediazioni con il passato. Se per Eliot la tradizione aveva un carattere nettamente progressivo, non conosceva ripetizioni, né incertezze, oggi essa appare sempre più simile ad un " caos di forme ": è la Medusa con le cento teste con cui occorre ingaggiare una continua ed incessante lotta. Il Passato incalza il poeta sia che esso lo ammiri sia che lo rinneghi: la tradizione quindi come mito ineludibile del destino del poeta. Eliot aveva semplificato la tradizione livellandola e unificandola sotto il segno di una cultura elitaria e ristretta: Milton, i poeti metafisici e neoclassici. Ora nell'ambito della decostruzione americana si viene costruendo una diversa tradizione, che si fonda sulla rivalutazione della poesia romantica e sullo studio approfondito della filosofia idealista romantica: Milton, Blake, Wordsworth, Shelley, Keats diventano i poeti più studiati e amati e le voci più autentiche della nostra contemporaneità sono Whitman e Stevens.
La tradizione è il destino della letteratura che ha origine e cammina sull'abisso della tradizione. Per sopravvivere deve accettare la sfida di riconoscere tale abisso e lottare con esso. Come ha ben dimostrato in questi giorni Bloom durante il suo affascinante seminario, Milton aveva capito il dramma della letteratura: la figura del Satana nel Paradise Lost diventa emblematica. Satana è eroe ma al tempo stesso stella caduta, proprio per aver voluto rinnegare la storia e con essa il proprio destino.
Domande e Risposte
Fink - Sono rimasto vagamente perplesso di fronte al tuo netto rifiuto del libro di Northrop Frye, The Creat Code, dedicato ai rapporti fra Bibbia e letteratura. Non intendo " difendere " questo libro, non avendone l'autorità né la competenza, ma mi preoccupa la possibile contraddizione riscontrabile nella tua definizione del libro di Frye come " appropriazione e usurpazione cristiana della Bibbia ebraica ". Leggendo il libro di Meyer Schapiro, Parole e immagini, che è uscito in Italia nel 1985 (e che mi interessava anche come premessa a un discorso sul rapporto fra narrativa e cinema nel nostro tempo), mi sono reso conto che le parole dei testi così detti " originali ", e in particolare le parole del Testo più originale che conosciamo, la Bibbia (tu spesso hai definito l'opera di " J " come il nostro originale, ben più di quanto possa esserlo, poniamo, Gilgamesh), non possono non essere continuamente fraintese, arricchite o impoverite non importa, comunque modificate anche sul piano del senso: per esempio, quando nel Genesi leggiamo che Caino uccise Abele, il verbo ebraico vayahargehu, corrispondente al latino interfecit eum della Vulgata, non indica affatto le modalità dell'uccisione, l'arma prescelta, ecc., tutte cose che illustratori e pittori hanno dovuto in qualche modo inventare. Ma tu stesso teorizzi misreadings e misprisions - purché forti, s'intende - e non si capisce bene perché un misreading cristiano da parte di Frye sia più debole o più scorretto di altri. Un misreading cristiano, per rifarmi ancora a Schapiro, è certamente l'immagine tradizionale della natività di Cristo, con il bue e l'asino, che derivano, a quanto pare, da due animali puramente metaforici, citati da un autore che se non erro ti piace poco e cioè Isaia (" conosce il bue il suo padrone e l'asino la greppía del suo possessore; Israele non conosce, il mio popolo non si comporta in modo consapevole... ", 1.3): ma è un misreading a cui nella storia della pittura, per le sue applicazioni iconografiche, non possiamo non essere grati. E allora perché non dovremmo concedere a Frye gli stessi diritti? Non credo che nessuno oggi possa più illudersi, come Gerolamo ai tempi della sua mistranslation, di ritornare alla " Hebraica Veritas ". D'altra parte non intendo accusarti di privilegiare una lettura ebraica rispetto a una lettura cristiana: ricordo bene come tu a entrambe anteponga la lettura gnostica, più soddisfacente a tuo avviso dal punto di vista sia morale che estetico. Ma non si rischia, una volta che si comincia a escludere gli ospiti non invitati dalla partecipazione al banchetto, di ricadere in una sorta di facticity tale da bloccare qualsiasi intervento revisionistico, di consegnarci mani e piedi legati a un testo che legge noi invece del contrario? (Sto usando, forse distorcendo ma non volontariamente, parole usate da te). Non si rischia di perdere di vista la grande libertà ironica di " J ", che consente a esempio a Robert Alter di interpretare la Bibbia come un grande romanzo pieno di personaggi affascinanti? E non si finisce addirittura per tornare a quel concetto di tradizione che giustamente combatti, quello eliotiano per cui ogni opera letteraria deve essere consapevole dell'esistenza di quelle precedenti, e il poeta giovane può entrare a far parte di quel grande fortino ben difeso che è la Letteratura di " Tutti i Tempi " solo a patto di rinunciare alla propria personalità, alla propria voce individuale? Insomma, non chiedo libertà o equal opportunity per Frye: penso solo che la storia della cultura occidentale equivalga a una storia delle misinterpretazioni della Bibbia (come pure, più tardi, di Marx, di Freud eccetera); e che come tale non debba venire soffocata da pregiudizi e sbarramenti.
Bloom - Non dico che tale interpretazione sia particolarmente sbagliata in sé, dico che è sbagliata per una causa particolare, diciamo, per ottenere un effetto particolare. Mi richiamo a quanto dicevo prima a proposito della " facticity " cercando di spiegare meglio.
Alla mia opposizione a Frye potrei associare anche quella contro Martin Buber, e, a dire il vero, contro tutta la critica biblica di cui sono a conoscenza, che sia ebraica, normativa, cristiana o semplicemente storica-accademica-dotta. Le figurazioni profetiche nella Bibbia (comprese, credo, quelle del Nuovo Testamento) sono in misura considerevole un tipo voluto di retorica ingannevole. Fate il confronto tra l'appello di Isaia nel cap. 6 del suo libro (l'appello fondamentale di un profeta) e quello di Mosé, sulla cui autorità sostiene di essere fondato. Mosé tenta di evitare l'appello, ma Isaia si offre ansiosamente e facilmente volontario, dicendo: " Eccomi, manda me, sono pronto ". Il lascito dello scrittore-J., dello Yahwist, si presenta soltanto nell'ironia terrificante delle ingiunzioni di Yahweh ad Isaia. Ma l'ironia di Isaia devia da quella dello scrittore-J., per diventare un'ironia molto meno perturbante per noi e, secondo me, molto meno convincente. Lo Yahwist non è mai amareggiato; anzi, si può dire che lo scrittore-J., precisamente come Omero, è al di sopra in modo sublime dell'amarezza. Anche se è diventato per noi quasi un modello del poeta forte, Isaia cade nell'amarezza per poter iniziare. Ripeto questo, perché segnerebbe veramente la differenza tra me e Frye: ecco il primo profeta scrivente di vera importanza che cade volutamente nell'amarezza solo per poter iniziare, solo per trovare la sua individualità. La sua amarezza è il prezzo della sua vocazione, o, come diremo nel ventesimo secolo, il segno della sua originalità. L'amarezza personalizza Isaia rendendolo memorabile proprio all'inizio della sua missione profetica. In contrasto con ciò il Mosé dello scrittore-J. è davvero sconcertato di essere stato scelto, lui, una specie di buffone che borbotta, uno tutt'altro che eloquente. Isaia è un ben noto tardivo e tropizza la propria eloquenza attraverso l'immagine straordinaria del carbone acceso col quale uno dei Serafini tocca la sua bocca: questo carbone acceso sulle sue labbra è il segno, per Isaia, della sua originalità come la sfera dell'occhio trasparente lo fu per Emerson, oppure quello strano tropo dello Spirito Santo, che cova sull'abisso immenso per impregnarsi ed essere impregnato, che fu il segno dell'originalità di Milton. Lo scrittore-J., come narratore dei racconti di Giacobbe oppure dell'Esodo, non aveva bisogno dell'auto-drammatizzazione, ma tutti quelli che vengono dopo di lui vi sono condannati. E' grosso modo su queste basi che respingo tutto quello che dice il Signor Frye. (Traduzione di C. Ace)
Fortunati - Harold, vorrei farti una domanda su cosa intendi per "intertestualità" in rapporto al tuo concetto della tradizione e all'angoscia di influenza. Conosco molto bene le tue principali obiezioni ai decostruzionisti, la tua diffidenza nei confronti di Derrida e del testualismo. Ma quando sostieni che la letteratura si basa sulla influenza, non significa che il suo tratto principale è l'intertestualità? L'influenza non opera sui testi?
Bloom - Ebbene, dipende direi da quello che intendi per intertestualità. Significa due cose ben diverse per la Kristeva e per il defunto Paul de Man, poiché Paul usava il termine semplicemente per indicare quell'elemento retorico così forte, in qualsiasi testo letterario da determinare l'improbabilità di una lettura precisa, e da avere la precedenza su qualsiasi altro elemento in un testo letterario. E' perfettamente chiaro che se è questo quello che si intende per intertestualità, non è certo con questo significato che io uso il termine. Ed è anche perfettamente chiaro che non ha niente a che fare con quello che Lacan propone come la forza del desiderio inconscio: questo in definitiva sarebbe l'unico principio di coerenza che può legare un testo. Allora è ancora ovvio che ciò non ha niente a che fare con quella che chiamerei io " intertestualità ". L'intertestualità è un termine molto vecchio ed anche un concetto molto vecchio: forse dovremmo eliminarlo perché ha portato a tante difficoltà - dallo scetticismo acuto e possente ma infine, credo, arbitrario di de Man, al discorso, credo piuttosto mitologico di Lacan e dei suoi discepoli.
Tornerei ben volentieri al vecchio termine " allusione ", a condizione che il termine " allusione " o " allusività " si rafforzasse per significare non solo un'astensione precisa di "allusione", un aderire tout court a Curtius, in questi giorni la guida più consistente e definitiva. Credo, però, che Curtius e i suoi collaboratori concepissero diversi livelli di " allusività ". Ci può essere un tipo generico di allusività che non è né voluta né involontaria ma appartiene semplicemente alla condizione dell'operare in un sistema in cui figure molto forti ti hanno preceduto. Infine ci può essere, direi, l'allusività repressa, forse neanche sotto il controllo cognitivo di un poeta o romanziere molto forte; ma sappiamo che la poesia, come ha detto molto tempo fa Coleridge per tutte le opere di fiction, è il prodotto di una energia sovra-nazionale, perciò di un controllo sovra-cognitivo. Vi sono livelli di allusività straordinari che si offrono in modi alternativi alla volontà conscia, eppure non rientrano necessariamente in un tipo di struttura profonda freudiana, e non debbono essere collocati nella forza continua di un desiderio inconscio.
Credo che se riuscissimo solo a capire in maniera più estesa come funziona l'allusione letteraria, in modo che includesse non solo la lotta manifesta di un'opera o di uno scrittore con altre opere o scrittori, ma anche tutti gli elementi generici che o appartengono al complesso enorme di potenze e mezzi che rendono un'opera letteraria o meno, allora sarei molto contento di rinunciare al termine intertestualità. Sono anche del parere che tutto ciò che si scrive è come una specie di pelle morta, cioè è come la pelle di una cipolla, che si stacca. Ci sono molte espressioni che ho usato nei miei libri ( per esempio ne L'angoscia dell'influenza oppure in A Map of Misreading ), che certamente non userei più e senz'altro una di queste sarebbe il termine " intertestualità ", forse solo perché significa un po' tutto nelle attuali scuole critiche.
Quando incominciai ad usare il termine, non credo che avesse tanti significati (parlo, credo, del lontano 1967). Ora siamo nel 1986, quasi vent'anni dopo e vorrei tanto eliminare il termine e usare solo " allusività ". In un certo senso ti sono grato per aver sollevato il problema perché, parlandone, si chiarifica anche a me stesso.
No! Non è poi il tratto principale dell'" influenza " se i termine "intertestualità" significa la sur-determinazione retorica di qualsiasi opera letteraria, incluso, diciamo, quel gioco tra metafora e metonimia che de Mari in un suo brillante saggio scopre in Proust. No, questa non mi interessa e non è quella che chiamerei intertestualità. Oppure se significa, ripeto, quella nozione lacaniana, in particolare formulata dalla Kristeva, come, una specie di corrente sur-determinata, che percorre qualsiasi opera, letteraria o meno, no, allora ancora no, non voglio mettermi a competere con quella. A prescindere da questo dibattito, vorrei che il termine "intertestualità" tornasse al suo significato tradizionale di allusività, o semplicemente a quello che Curtius chiama lo studio dei tropi, in parte su una base storica, in parte generica e, suppongo, in parte su una base parziale che non abbiamo ancora formulata, perché non possediamo una psicologia della creatività. Freud è arrivato soltanto sino alla formula (straordinaria) che vuole che l'opera di uno scrittore, o di un artista, sia la regressione al servizio dell'Ego: formula molto pericolosa, che Freud stesso alla fine abbandonò. Non abbiamo una psicologia creativa come tale e non ho molte idee sul luogo dove possiamo andare a scavarla. (Traduzione di C. Ace).
Franci - Prima di fare a Bloom la domanda, che mi veniva in mente mentre ascoltavo il suo intervento sul concetto di facticity, nel quale ha accentuato, a mio parere, l'aspetto negativo della tradizione rispetto a quell'equilibrio difficile fra atteggiamento positivo e negativo che finora aveva caratterizzato tutta la sua opera e anche il suo procedimento di lettura, vorrei fare qualche considerazione di carattere generale.
Tagliaferri, tra l'altro, ha posto l'accento, per Bloom, su Freud. Io vorrei porlo sulla " gnosi " e sul " pragmatismo ", così importanti, anch'essi nella formazione di Bloom. Vorrei, nel breve tempo che mi posso concedere, accennare a queste due tradizioni, apparentemente lontane fra loro e coniugate perfettamente nell'opera di Bloom. Infatti, lungi dal volervi ritrovare problemi che rimandino al testualismo decostruzionista, o alla dottrina della ricezione e del reader-response, mi sembra opportuno sottolineare, nella sua idea di lettura/scrittura, di critica nel senso più ampio del termine, la sua adesione alla gnosi.
Scrive nel saggio The Breaking of Form (dal libro Deconstruction and Criticism): " La gnosi e la Kabbalà sono a un tempo tradizionali e deidealizzanti, nel loro aspetto di scrittura e di lettura, e continuo a tornare a loro nel tentativo di scoprire modelli definitivi per una lettura creativa e per una scrittura critica ". E' la gnosi intesa come interpretazione non-normativa della tradizione (cioè dell'influenza) che, dalla accezione più ristretta di lettura revisionistica delle Sacre Scritture, attraversa la cultura occidentale suscitando anche oggi particolare interesse e adesioni in ambiti non solo religiosi ma anche secolari. Contro ogni metodologia di tipo formalistico (per Bloom ci sono solo due grandi tradizioni di lettura, quella formalistica, che discende da Aristotele, e quella longiniana-revisionistica), il critico bloomiano trova il proprio metodo in se stesso, nel proprio sé più profondo. E la gnosi è il suo non-metodo, come esperienza interiore o conoscenza poetica, non come conoscenza razionale.
Ma, se da un lato è importante per Bloom la tradizione kabbalistica ebraica (Kabbalà, ci ricorda più volte, vuol dire letteralmente tradizione), il suo punto di partenza è meno esoterico e più pratico. Le domande che si pone (cito da A Map of Misreading), sono: "che cos'è una tradizione letteraria? Che cos'è un classico? Che cos'è una visione canonica della tradizione?". E ancora: "Siamo noi a scegliere una tradizione o è lei a scegliere noi?". Il problema ora si concentra (allontanandosi sempre di più da T. S. Elliot) sulla scelta e quindi sulla supremazia, influenza, lotta. I libri più importanti di Bloom su questo argomento sono ormai così noti da rischiare quasi, a loro volta, la canonizzazione, se non ci fosse in lui quella forza perenne dell'efebo contro il precursore, ora tramutata nella più matura consapevolezza della condizione ineludibile della facticity. E', qui allora che la sua gnosi si riallaccia a quella che forse è stata l'unica grande filosofia americana, cioè il Pragmatismo.
Se si rifiuta il metodo si lega l'esperienza della lettura a quella del sé, della vita, della ricerca disperata della verità nell'unico qui e ora che ci rimane. E il linguaggio figurale del tropo (in Bloom non inteso come pura figura retorica, ma come meccanismo di difesa psichica rispetto all'angoscia dell'influenza) è il modo di tentare di dire " ciò che non si può dire", o capire. Una via poetica, cioè, di conoscenza, in forma però negativa o interrogativa, nel concreto di una critica " experiential ". Ascoltando, in questi giorni, i seminari che Bloom ha tenuto sull'opera di Milton, tutto ciò risultava, a mio parere, abbastanza evidente: una lettura appassionatamente personale, ma nello stesso tempo unita al rifiuto di una mera identificazione autobiografica, nell'affermazione della "fictionality " di ogni nostro atto; l'ossessivo " questioning ", quasi una operazione maieutica, nei confronti di noi che lo ascoltavamo; il gioco continuo fra vita e finzione, a la Oscar Wilde, che ci affascinava, pur lasciandoci a volte nel disagio e nel sospetto di una fondamentale uncannimess colta nel suo farsi.
Come la scrittura anche la lettura implica un momento di creazione-catastrofe: e Bloom parla di rottura, agone, di pneuma o spark; ma questa creazione-catastrofe questa illuminazione rara e improvvisa, si accompagna sempre (e oggi ce lo ha esposto chiaramente), alla consapevolezza di vivere in una condizione di non-innocenza, di tradizione ineludibile, di " contingency " o " facticity ". Rimanda, cioè, all'impossibilità di una " un-mediated vision ", che è anche la coscienza della nostra " belatedness ". Questa è, per Bloom, la forma tardiva del sublime romantico, anzi dell'ironia romantica: da una parte c'è il richiamo all'aspetto visionario e profetico dell'arte e della lettura/interpretazione, dall'altro l'accettazione (agonistica, però) di una condizione di necessità, versione post-filosofica del Pragmatismo di cui parla Richard Rorty, molto vicino in questo a Bloom. Il " misreader " forte, senza più l'illusione di un segreto nascosto nel testo, né di un codice che lo scopra, non si cura secondo Rorty di distinguere fra scoperta e creazione, fra trovare e fare; e alla domanda: " Cosa si può fare in mancanza della verità? ", risponde pragmaticamente nel senso di voler credere che il soggetto si fa nella cosa, nel fare.
Cadute la filosofia, la scienza (anche letteraria), la morale, rimane un senso direi " etico " della vita; ed è quello che troviamo in Bloom. Ma è un'etica pragmatica che viene dopo Nietzsche e Freud, quindi negativa. Una negatività, però, che non è da confondersi con un generico nichilismo, né è da assimilare a una dialettica hegeliana o a una decostruzione heideggeriana. Il revisioniamo di Bloom non è quindi un'operazione di rovesciamento, ma attraverso la via gnostica rinnova continuamente il potere della lettura/scrittura, contro la facticity, la versione bloomiana di quella che de Man chiamava la temporalità.
Critica, oggi, è soprattutto lettura, come ermeneutica e come misreading, come abbandono e come piacere, come fuga del significato e così via. Lo è per i critici tradizionalisti e per i sociologi della ricezione, lo è per i semiotici e per i decostruzionisti. Ma è Bloom che ha coniato alcuni termini nuovi e li ha riproposti in modo del tutto personale. Nell'atto pragmatico della lettura tutto è in gioco: per Bloom la scena agonica è quella della tradizione intesa come un campo di battaglia psichico. E quando si dice che letteratura, critica, scrittura e lettura sono la stessa cosa nel post-strutturalismo, significa proprio questo incontro-scontro fra potere retorico e potere della coscienza che si ingaggia nella lettura di un testo. Si ha una continua operazione di persuasion e di deception nella lettura come pragma; infatti in quello che Bloom chiama " il più positivo dei momenti negativi ", si vuole fare passare una menzogna per verità. La figura con la quale il critico antagonista esprime meglio questo senso di consapevole menzogna dello scrittore/lettore, questa operazione paradossale di rapporto fra earliness e belatedness, fra originalità e peso della tradizione, è la transunzione o metalepsi, tropo di un tropo, atto insieme allusivo ed elusivo, con cui il poeta (e il critico), ti costringono a vedere attraverso il loro potere interpretativo.
Per questo penso che, a differenza dei suoi colleghi decostruzionisti, che tramutano la metafisica della presenza in quella dell'assenza, che sostengono la mise-en-abime del significato, Bloom si collochi nella difficile posizione dell'acrobata di Nietzsche sul filo, sull'orlo dell'abisso, inattuale versione di tarda sublimità.
Detto questo passerei alla domanda, che è la seguente: con quest'ultima tua accentuazione della condizione di facticity accanto a quella di tardività, è possibile che tu stia passando a una fase più negativa rispetto a quelle precedenti, all'interno della tua teoria dell'angoscia dell'influenza? Infatti, dal momento che io amavo leggerti come una specie di Profeta emersoniano del nostro tempo (naturalmente con la consapevole ironia che ti contraddistingue), non è plausibile che tu stia perdendo l'aspetto più positivo della tua visione antagonistica (un po' come ha suggerito la tua lettura di un Samson Agonistes stanco della lotta, nell'ultimo seminario)? Allora, se è così, pensi ancora che, nonostante tutto, nell'atto della lettura sia possibile fare scaturire un fresh meaning, un nuovo significato, o tutto è inevitabile ripetizione?
Bloom - Credo di sì. Direi che la questione essenziale per ogni teoria critica, in qualsiasi periodo, è quella di essere in grado di prendere in considerazione il problema di come un significato abbia origine. Credo che il mio principale dissenso da quella che si chiama la critica post-strutturalista, compresa la critica di Roland Barthes, oppure del defunto Paul de Man, come pure di Derrida, della Kristeva e di molti dei loro discepoli stia nel fatto che essi partono da quella fondamentale linguistica francese moderna che è la linguistica differenziale saussuriana, con la quale non è più possibile trattare il problema della connotazione in letteratura. Se si divide il significante dal significato, non mi sembra più possibile, si dia la supremazia al significante o al significato non importa, decidere da quale parte della sbarra, che divide il significante dal significato, stia la connotazione. E' stata formulata una linguistica che può servire benissimo per leggere i cartelli stradali, o per leggere i cartelli nei bagni pubblici, come si trova in Lacan, ma che serve ben poco nella lettura di una poesia, di un racconto, di un romanzo, i quali danno un'inflessione al loro significato attraverso una sfumatura di tono oppure attraverso l'esplorazione della connotazione di qualsiasi tipo. Per me il problema che la critica ha sempre dovuto affrontare è il problema del significato, di come il significato abbia un inizio, più che come semplicemente venga ripetuto o prolungato. E' perfettamente chiaro che non può iniziare senza connotazioni nuove. E' anche perfettamente chiaro secondo Freud come critico del significato, che inizia in uno dei tre modi che io ho cercato di approfondire, più o meno seguendo Freud, ma anche, credo, seguendo Emerson e varie altre vecchie eresie, come ho sempre detto, compreso lo gnosticismo.
I tre modi hanno tutti i loro difetti: il primo modo è la creazione catastrofica, una " rottura-dei-vasi ", per usare quel vecchio tropo gnostico. Qualcosa di nuovo viene creato ma sempre al prezzo di qualcosa di vecchio, perché i vasi dovrebbero essere in grado di riceverlo ma la forza della creatività è talmente grande che si spezzano e c'è sempre un guasto, una rottura, che è simultaneamente una specie di nuova creazione. Ovviamente, c'è un aspetto molto negativo nella creazione di un nuovo significato in un modo così catastrofico. In secondo luogo c'è il transfert da un primo testo ad uno seguente oppure il transfert dell'" eros ", come quello di cui anche parla Freud, presumibilmente da una figura-paterna, ad una figura più o meno contemporanea, o almeno una figura necessaria. C'è sempre, secondo Freud, e a dire il vero fu detto molto prima, di Freud, un aspetto negativo in un tale transfert. Nel leggere questo tipo di aspetto negativo rispetti solo il fenomeno. Infine, c'è quello che Freud chiama il " romanzo familiare ", oppure la fantasia del bambino sostituito, la quale è sempre esistita nella mitologia - la nozione di una specie di bambino divino che si rifiuta di riconoscere la propria ascendenza nella propria famiglia, come Gesù (dopotutto anche Gesù non è il figlio del padre apparente, Giuseppe, marito di Maria: c'è anche qui un elemento negativo). Suppongo che, benché si continui a cercare disperatamente la soluzione della creazione di nuovi significati, anziché la loro semplice ripetizione o trasmissione, si vede sempre di più che la forza di un particolare scrittore, come Shakespeare o Dante, uno scrittore veramente travolgente, o - che so? - Freud forse o Proust, ha tanti elementi negativi, che scoraggiano una creatività nuova, quanti elementi positivi. Ma Poiché questi tre modi della produzione di nuovi significati (la creazione catastrofica, il transfert e il "romanzo familiare "), hanno tutti aspetti inevitabilmente negativi, continuare a vedere semplicemente quant'è grande il problema, o quant'è grande l'ostacolo, non credo sia cedere al negativo o cedere ad un nuovo-negativo ma solamente, spero, fare una stima più realistica di quant'è difficile la produzione di nuovi significati. Vorrei, aggiungere una sola cosa: in ognuna di queste tre spiegazioni l'elemento che mi sembra ora più positivo è quello di una forza emanativa, la quale è semplicemente in eccesso, troppo grande, che trabocca, rompe i vasi rompe i confini del romanzo familiare; oppure è talmente forte che nel passare da un primo a un secondo transfert produce un effetto molto più forte e un rapporto molto più profondo. Qualunque sia quella forza emanativa, quell'eccesso, o traboccamento, che è chiaramente in qualche modo legato alla produzione di un nuovo significato, sono certo soltanto, in questo momento, che appartiene agli aspetti connotativi, più che denotativi, del linguaggio; così le teorie del significato differenziale, o del significato per differenza, semplicemente velano, o mascherano, qual è oggi il nostro vero problema come critici e lettori. Non credo ci sia altro da dire per il momento.
(Traduzione di C. Ace).