Caro Vattimo, aiuto!
Caro Vattimo, aiuto! Levami un tormento. Lo merita il tempo che dedico all'ascolto del tuo pensare. Tu dici: "Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni". Anche di recente l'hai ribadito [Dio, l'ornamento, in "MicroMega" '96]. E ne sono anch'io convinto. Tu concludi cosí in compagnia di Nietzsche, Heidegger, Gadamer e la tradizione ermeneutica. lo con Saussure, Popper, Prieto, Galileo anche e la tradizione scientifica. Bene, mi dico, le vie del Signore sono infinite. Ma poi tu precisi che la suddetta affermazione non è a sua volta un fatto (una constatazione) ma ancora un'interpretazione e cosí mi dividi le vie in due gruppi inconciliabili: e qui comincia il mio tormento. Come è possibile che praticando la descrizione (la constatazione) io sia arrivato a scoprire la stessa cosa di chi pratica la via contraria? Miracolo o insipienza di chi fa ciò che non crede di fare? E se fosse infatti vero che la descrizione non può che venire, oggi, praticata inevitabilmente ovunque? Un po' come accade, secondo Aristotele, al principio di non contraddizione, inevitabile per chiunque voglia dire qualcosa.
Certo a un livello diverso rispetto a quello di base in cui la nostra frase ha significato, a un livello secondo, ma pur sempre inevitabile. Nella scienza scopertamente e quindi lodevolmente attenti a tutti i suoi limiti. E primo dei quali è appunto questo: sono le interpretazioni gli unici fatti che in linea di principio possiamo descrivere. Non altro. Tanto in ambito naturale (rammenti Heisenberg? Non descriviamo l'elettrone in sé, ma solo l'interpretazione che dell'elettrone ci danno i nostri strumenti) che in quello storico-linguistico (non descriviamo la crociata in sé, ma l'interpretazione che di essa ci danno i documenti). Nell'ermeneutica, invece, occultamente rimuovendola. Non è una rimozione della descrizione, infatti, quella che tu stesso eserciti sulla frase di Nietzsche?
Un occhio capace di vedere la differenza tra "fatto" e "interpretazione" non può che essere ad essi esterno. Non è forse l'elicottero il punto di vista privilegiato per vedere la differenza tra piú strade? E guardare dall'esterno che è se non descrivere? Non è in tal modo che anche Kant, ad esempio, arriva a rifiutare a Newton lo spazio come sensorio di Dio?
E ancora di recente, in occasione del Convegno in onore di Luciano Anceschi. Anche lí hai stigmatizzato l' "occhio esterno", a tuo dire particolarmente perseguito dalla "Scuola di Bologna" e da Anceschi in particolare. Vedere la sua distinzione rigorosa tra estetica e poetica e l'identificazione dell'estetica con A puro orizzonte della comprensione. Distinzione esorcizzata invece, sempre a tuo dire, nella "Scuola di Torino", grazie a quello sguardo filosofico sull'essere mai venuto, da voi, meno e in oblio in qualche modo invece - sempre a tuo dire - qui, presso di noi, a Bologna.
Io però non posso non chiedermi e non chiederti, amico mio: non esige forse la percezione di quella differenza ontologica, che sola può aprire lo sguardo (anche torinese) sull'essere, un occhio totalmente dis-chiodatosi dall'ente e quindi appunto ad esso esterno? Un occhio totalmente interno agente che differenza potrebbe percepire? E allora che farsi e disfarsi di enti e allora che essere? Solo uscendo da ogni storica concrezione dell'essere lo sguardo può accedere a tanto e fare della differenza ontologica il motore (anche politico) certo della auspícata (da Torino, ma anche da Bologna) de-ideologizzazione dell'ente. Non c'è scampo, anche al vostro fine il passaggio dall'esterno è inevitabile.
E poi via, non è l'analisi anche l'anima della vostra via? E da sempre, almeno in linea di principio? Ma qui è questo che conta, non i suoi fallimenti di fatto. E può esserci analisi senza occhio esterno?
Non è che la filosofica Torino abbia fatto e faccia qualcosa di diverso dall'epistemologica (neo-fenomenologica) Bologna. Fa la stessa cosa, presuppone la stessa cosa e, voglio pensare, non se ne accorge. Che, se ne fosse cosciente e scientemente negasse, non si saprebbe veramente che conto fare di ogni vostro (tuo) auspicio di "realtà". Certo, la velocità con cui poi l'occhio esterno torinese si rigetta nel mondo è ben superiore a quella dei bolognesi, ma questo teoricamente parlando che c'entra?
Mi coglie un dubbio. E se la vostra (la tua) meta-cecità, diciamo cosí, fosse proprio effetto di questa vostra (tua) iper-velocità di ritorno al mondo? E basta? In fondo non succede la stessa cosa anche con i fotogrammi nel cinema? Non è che anche lí manchi l'oggettivazione, con tutto ciò che implica. E' che anche li, nel cinema, la velocità è nemica della differenza e dello sguardo esterno (o innocente, all'etimo "che non nuoce", come io preferisco dire) che non può non esserle sodale.
Caro Vattimo, tu sai che all'antica distinzione tra episteme e doxa non crede piú nessuno. Riesumarla è solo un gesto non caritatevole di separazione. A che pro se poi anche i tuoi desideri di estetologo restano descrittivi, tesi cioè a prendere atto di verità già date? Non lamentavi forse nel 1992 ["Rivista di Estetica" n. 3, a p. 8] l'ancora non disponibilità analitica della "logica" implicita "nell'esperienza estetica" post-moderna, vivente o a venire che fosse? Bene. E' ciò che anch'io, in questi anni, ho tentato di scoprire. Ma questo non conta. Qui conta il tuo ribadito assenso, anche in questo caso, alla descrizione. Se persisti nel denegarla vengo a Torino e, amico mio, ti meno. Senza rischi: tanto, chez toi, non si tratterebbe di un fatto ma solo di un'interpretazione.
Bologna, ottobre 1996