Contro la teoria standard della
comunicazione: non solo Leibniz...
(Parol on line, maggio 1999) di Luciano Nanni
- 0. Premessa
- 1. Sulla soglia
- 2. Il problema ripulito e messo a nudo
- 3. Vetustà del problema e teoria del "satellite"
- 4. Il "luogo" come garante
- 5. "Comunicazione" come auto-comunicazione
- 6. Conclusione a salute
E' noto. Il gioco è detto " Shanghai ". A volte costruzioni mirabolanti devono il loro improvviso crollo alla posizione impropria di un semplice bastoncino. Posizione che non c'è abilità di giocatore che possa sanare o rendere innocua.
Questa mi sembra l'immagine più adatta a rappresentare lo stato della linguistica e della semiotica nel nostro secolo: edificio ormai immenso, internamente articolatissimo e esternamente poliverso e polivalente, con mega-partiture da brivido. Esteso a piovra e seducente al punto che resistergli è ormai impossibile e soprattutto pensato stupidamente auto-lesionistico. Lo sanno bene quelle Università che non hanno rinnovato i loro corsi in tale direzione: gli studenti le abbandonano in massa. E lo sanno altrettanto bene enti pubblici e aziende private, convinti di non potere funzionare al meglio senza adeguati stages e corsi in materia. Per non dire poi della politica, dei suoi partiti e delle corrispondenti istituzioni. Nessuna esclusa.
Bene. Il bastoncino che mi pare di individuare in posizione non sua in tutta questa mega-costruzione e che nelle pagine seguenti mi proverò correttamente a togliere di mezzo, è l'idea che in quella che noi chiamiamo "comunicazione " ci sia trasmissione diretta di pensiero dall'emittente al destinatario, la teoria insomma che vuole che l'esperienza che chiamiamo "comunicazione" possa trovare la sua comprensione e spiegazione scientifica nel modello binario emittente-ricevente e nel loro reciproco scambio orizzontale di concetti. Ma, mi si potrebbe obbiettare, la semiotica di questo secolo, tanto per stare ad essa, ha in sé anche modelli esplicativi diversi, moto più sofisticati e problematici. Sì! E' vero, ma questo modello binario è indubbiamente quello standard e più diffuso: quello che i nostri figli studiano a scuola e che, come meglio dirò in seguito, tutti i dizionari del mondo non hanno timore a registrare come l'unico sensato. I dizionari: la coscienza collettiva ! Ma, volendo, oserei dire di più. Ho l'impressione che anche i modelli diversi che la riflessione sulla comunicazione del '900 ha, a margine di questo o contro questo, elaborato, non ne siano al fondo una negazione, ma un semplice occultamento a complicazione. In qualche punto mi proverò implicitamente a dimostrarlo, citando come fautori della "trasmissione " proprio autori in genere noti per aver stornato l'attenzione da essa. Implicitamente, perché lo scopo di questo mio scritto è solo quello di dimostrare l'inutilizzabilità della teoria della trasmissione a spiegazione scientifica della comunicazione, non quello di vederne la sua presenza tacitamente aporetica nelle teorie che pretenderebbero di problematizzarla [Penso anche a chi più sembra a me vicino, addirittura a me identico. L'attacco con cui, per esempio, Dan Sperber e Dreirdre Wilson aprono, nel libro intitolato Relevance: Communication and Cognition e pubblicato dalla Harvard University Press nel 1988, il capitolo sulla comunicazione sembra scritto da me. Sì, vediamo lo stesso problema o anomalia, per dirla con Kuhn. E allora identici sì, ma solo fin qui: non nelle teorie proposte a scioglimento scientifico del problema. Essi non credono possibile una risposta generale ( una teoria generale ) della comunicazione, che io ritengo, invece, possibile e poi circa l'argomento specifico in questione, e cioè la trasmissione di pensiero nella comunicazione, essi la negano sì, ma contraddittoriamente presupponendola. Non pare si rendano conto che l'"indizio", cui affidano il compito di rivelare le intenzioni di comunicare del locutore , che essi salvano contro quella che viene chiamata la "teoria del codice", può essere indizio solo in base a un codice, indipendentemente da come il codice stesso si costituisca. Obbiezione che si può estendere a tutto il modello detto "inferenziale" voluto come opposto a quello del codice e che, a detta anche degli stessi Sperber e Wilson, già J. Searle faceva notare a H.P. Grice. Senza poi dire in fine che anche il modello inferenziale resta, al pari di quello che prevede la trasmissione diretta del pensiero, binario. Un altro libro vicino a questo mio problema è Capire le parole di Tullio De Mauro (Laterza, 1994). L'enigma è sempre lo stesso: il mistero della comprensione reciproca. " Comprendere un enunziato - sottolinea De Mauro a pag. VIII di questo suo libro - comprenderlo davvero, è sempre un caso di problem solving. Così abituale per ogni essere umano sin dalla nascita, così abituale e intrinseco per tutta la nostra specie da centinaia di migliaia di anni (.) che di questa ordinaria difficoltà quasi ci dimentichiamo. Ma in tal dimenticanza abbiamo torto. Vi è, ed è da esplorare analiticamente, una difficoltà permanente del comprendere linguistico ogni volta che siamo dinanzi a qualunque enunziato parlato o scritto che dia corpo alle frasi e ai testi possibili in una lingua.." Così detto è appunto anche il problema mio. De Mauro è al riguardo anche più esplicito: " Un primo intento accomuna tutti gli scritti ( egli dice degli scritti contenuti in questo suo libro ): trarre di cielo in terra la problematicità della comprensione. Comprendere un enunziato linguistico pone sempre un problema, anzi una somma di problemi quale che sia l'enunziato e quale che sia la perizia di chi lo riceve e vuole capire. Comprendere è difficile non solo dinanzi all'enunziato parlato o scritto in una lingua che ci sia straniera.. Comprendere è difficile sempre." ( pp. VII-VIII ). Solare. E ci accomuna pure l'intenzione di togliere credito al modello della "trasmissione", che egli chiama "riflesso obbligato" (p.IX). Ma ho l'impressione che finisca poi per muoversi soltanto a latere rispetto alla centralità che questa questione assume nella mia ricerca, vuoi disperdendola, da un lato, in una infinità d'altri problemi e annegandone, per altro, quella che a me sembra la sua unica causa ( macrocausa ) in un elenco quasi sterminato di fattori che, indicati così alla pari ( non gerarchizzandoli insomma ), finiscono per togliersi recipropcamente ogni potere esplicativo o quanto meno per attenuarselo di molto. Ciò rende alcune sue esplicazioni e alcuni suoi recuperi storici simili ai miei e alle mie solo in apparenza. Senza poi dire che mi pare finisca per depotenziare il modello della trasmissione solo retoricamente, se è vero che nella sostanza analitica, e quindi scientifica, del suo discorso il massimo suo desiderio sarebbe quello di recuperare " un'etica dlla comunicazione linguistica che elegga a suo principio regolativo quello che la comunicazione linguistica sia appunto degna del suo nome: un modo, il più diffuso e primordiale e umano dei modi, per mettere in comune i sensi, le esperienze che ci è dato di cogliere nella nostra vita."( pp. IX-X). Non vedo, qui, la differenza con la teoria della trasmessione tanto aborrita. I sensi , le esperienze non si mettono in comune. O si fanno in comune e già tutti le abbiamo o non si fanno in comune e non c'è comunicazione che possa farle comuni. Ma non anticipiamo. Da questo libro mi viene comunque un grande conforto. De Mauro riconosce, e siamo nel 1994 e cioè appena a ieri, che linguisti e semiologi sono in grave debito d'ascolto circa la comprensione. Si sono occupati a iosa della produzione dei testi e dei discorsi, ma ben poco delle questioni connesse alla loro comprensione. E se se ne sono occupati l'hanno fatto secondo soluzioni scontate. E' ciò che anch'io penso, in specie nei riguardi delle teorie linguistiche e semiotiche del Novecento, e un simile riconoscimento d'attualità di questa linea di ricerca non può che rendere ancora più salde le mie convinzioni circa il loro senso.].
Dunque, a noi ! E via la trasmissione ! Con conseguenze a 360 gradi sugli apparati semiotici dati. Conseguenze che direi palingenetiche rispetto all'esigenza di ricomprensione a verità, scientifica - si capisce - e quindi sempre ri-problematizzabile, della politica, della didattica, della ( e perché no? ) medicina, psichiatrica o meno che sia. Ci sono, nella morale, sottili questioni di colpa; cogenti questioni di giudizio e di valutazione nella didattica, di potere persuasivo ( si pensi alla polemica sulla proprietà delle televisioni ) nella politica ecc. ecc. inevitabilmente connesse al principio della trasmissione. Questioni destinate tutte, su questa via, a essere radicalmente reimpostate: germi per un libro complessivo sulla comunicazione che però, qui, non si scriverà. Con la falsificazione della teoria della trasmissione se ne porrà soltanto il presupposto, lasciando a un laborioso futuro, se ci sarà, il compito di dedurne tutto il rimanente.
"Non c'è desiderio più naturale del desiderio di conoscenza. Noi saggiamo tutte le strade che possono condurci ad essa. Quando la ragione ci fa difetto, ci serviamo dell'esperienza....": così Montaigne all'incipit di un suo celebre essai [M. De Montaigne, Saggi, Milano, Mondadori, 1970, vol. II, p. 1422.], ma direi più ottativamente che in realtà. In realtà mi pare naturale, e proprio in base all'esperienza, anche il desiderio contrario, il desiderio di non ridiscutere più nulla, il desiderio di dare tutto per conosciuto e sistemato. E poi, certo, dipende dai livelli. Ci sono dei livelli rispetto ai quali la constatazione di Montaigne ha più valore che per altri, scientificamente e non. E, all'interno della scienza stessa, il discorso vale diversamente tra questo e quel settore dell'esperienza. Ma la spada di Damocle della credulità sempre incombe sul nostro sapere, il trinceramento dietro all'Ipse dixit appare all'ordine del giorno e la sua indebita trasformazione in natura (in ideologia) una prassi altrettanto corrente, se non di più, di quella critica contraria. Ne sono spia le difese che contro questa specie di sclerosi epistemica, diciamo così, pensatori e scienziati in procinto di argomentare il nuovo, lo sconosciuto, il non pensato, ritengono di dover portare in campo. Vuoi con l'iniziale appello all'uomo riflessivo che è in noi, vuoi con l'invito a scinderci, interiormente, laonde poterci difendere dalle sirene culturali che costituendoci ci abitano, vuoi invitandoci all'epoché, alla sospensione, almeno momentanea, del giudizio su tutto ciò che al momento appare convincente per una palingenesi che, anche se non si verificherà - chi può sapere! -, non sia comunque bloccata, per partito preso, in partenza. Vuoi anche col garantire grandi scrupoli metodici, avvalorati da ribaditi controlli e ripensamenti (pensamenti ripetuti). Tanto più grandi e ripetuti quanto più nuova si presenta, per così dire, la novità.
"Mi permetto di chiedere al lettore - scriveva il reverendo Berkeley, accingendosi a pubblicare quella sua teoria della conoscenza ritenuta da lui sorprendente - che non giudichi prima di aver letto tutto il libro completamente almeno una volta, con quell'attenzione e riflessione che la questione trattata richiede. Perché non solo vi sono alcuni passi che, presi isolatamente, possono facilmente (né a questo si poteva rimediare) venir gravemente fraintesi e quindi si può attribuire ad essi conseguenze del tutto assurde.... ma inoltre, anche se si legge tutto il libro ma senza attenzione, è facilissimo che ci si possa ingannare sul significato preciso di ciò che vengo esponendo, mentre mi lusingo che riuscirà invece chiaro ed evidente in ogni punto a un lettore riflessivo." e aggiungeva "Quanto poi alla novità e alla stranezza, che possono sembrare caratteri delle teorie che ora esporrò, spero bene che sia inutile scusarle. Deve infatti essere ben debole o ben poco esperto di cose scientifiche uno che respinga un'idea che può venir dimostrata vera per la sola ragione che è stata scoperta soltanto ora e che è contraria alle opinioni invalse tra gli uomini." [G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, Bari, Laterza, pp. 5/6.] È anche ciò che, grosso modo, G.W.Leibniz premetteva alla pubblicazione di sue idee altrettanto inconsuete, almeno anche qui, per come il sapere si era riassestato nel suo tempo.
"Da diversi anni ho concepito questo sistema e ne ho anche discusso con alcuni uomini dotti.... ho poi proseguito - egli scriveva - le mie meditazioni secondo le occasioni che mi si presentavano, per offrire al pubblico le opinioni ben ponderate.... In fine... ho azzardato le meditazioni che seguono, sebbene non siano affatto popolari e non siano proprie ad essere gustate da ogni sorta di spiriti. E sono giunto a questa decisione - egli continuava - per trarre profitto dai giudizi di quanti sono esperti di queste materie, perché sarebbe molto imbarazzante cercare e riunire privatamente quelli che sarebbero disposti a darmi ammaestramenti, che io certamente accetterei, purché fossero mossi dall'amore della verità più che dalla passione per opinioni preconcette." [G.W. Leibniz, Nuovo sistema della natura e della comunicazione delle sostanze e dell'unione tra l'anima e il corpo in Scritti filosofici, Torino, U.T.E.T., 1967, Vol. I, p. 189.] E come Berkeley e Leibniz tanti altri, prima e dopo di loro. Il nuovo, l'impensato, non trova affatto facile ascolto. Anzi, se non gli riesce di aggirare in qualche modo, con qualche astuzia della ragione- si potrebbe dire con un altro ben noto pensatore -, il muro degli stereotipi del tempo rischia il rimbalzo dello scontro con essi e l'autocondanna al silenzio e alla scomparsa.
E ciò che anche a me pare di dover tentare, accingendomi ad argomentare in modo inconsueto il contenuto di questo mio saggio. Son cose nuove, generalmente impensate (impensate dai più intendo) quelle che qui mi accadrà di imbastire circa la scienza e la comunicazione e senza un patto di reciproco rispetto e ascolto tra me e il mio eventuale lettore, di reciproca scommessa, volendo, sulla nostra serietà mentale, sulla nostra reciproca, insomma, buona fede scientifica, potrebbero rischiare di rimanere fuori da ogni dimensione criticamente dialogica e quindi perdersi in quel limbo dello stravagante e del bizzarro, dove purtroppo, causa anche a volte l'inesperienza retorica del proponente, spesso finiscono puri "pensamenti" serissimi e di grande spessore teorico, rischiando di rimanervi sommersi per tempi inenarrabili quando non addirittura di morirvi.
Ora, non so se la mia imperizia retorica raggiunga tali pericolosi livelli di guardia. Valga nel dubbio, appunto a vicariarla quella dei valentuomini citati, stante, nella differenza d'abilità (ci mancherebbe !), l'identità del caso.
Anch'io le opinioni che qui esporrò circa il comune convincimento intorno alla comunicazione le ho concepite da diversi anni e ne ho discusso pure pubblicamente nelle mie conferenze. Ne ho avuto in risposta prevalentemente perplessità, quando non isterismi accesi e rifiuti, ma anche implicita attenzione e rovello, documentati proprio dall'incapacità degli increduli d'andarsene, abbandonando la sala e me al mio destino.
Fiducioso allora che, nonostante tutto, quanto sto per dire sia di interesse comune, vorrei qui, raccogliendo quanto per accenni ne ho già detto negli scritti precedenti, tentare di darne finalmente una trattazione un po' più ampia e organicamente argomentata.
Ma prima ancora una precisazione, utile a non inimicarmi così, proprio in principio i sapienti. Una precisazione circa "i più" cui ho già accennato di rivolgermi. L'impensato di cui dirò è tale, appare a me tale, rispetto alle conoscenze dell'uomo comune, non certo a quelle degli specialisti, quando non ontologizzano anch'essi, ovviamente, quell'uomo comune che si portano in corpo. E dell'uomo comune odierno. Per il passato vedremo che il discorso potrebbe essere diverso. In fondo io non ho mai avuto di mira, anche nelle mie polemiche più accese, le pensate di questo o di quel teorico singolarmente presi, ma sempre l'uso comune, da Mondo 3 si potrebbe dire con Popper [K. Popper, La conoscenza e il problema corpo-mente, Bologna, Il Mulino, 1996, passim. Il Mondo 3, di cui Popper dice, non può essere altro, alla fin fine e anche per ammissione di Popper stesso, che il mondo dei segni espressi e conservati e quindi quel livello di realtà che, per via intersoggettiva e quindi oggettiva (è difficile riuscire a teorizzare un'oggettività diversa dalla intersoggettività all'interno della scienza), ci accomuna.], ormai in sé indipendente dai singoli anche se con i singoli in continuo e reciproco rapporto costitutivo, che di quelle pensate gli uomini, nella loro massa, fanno e hanno fatto.
Se mai, colpa degli specialisti (degli scienziati) è quella di non aver poi mai, nei casi intendiamoci da me considerati - il presente compreso - , fatto nulla per propugnare una ricezione critica, socratica direi, delle loro teorie e delle loro idee, finendo anch'essi per lasciare che si sovrapponesse a loro stessi (a loro stessi in quanto ricercatori) quel mittel-mensch che sempre anche uno scienziato, abbiamo visto, si porta dentro, così naturalmente portato (con buona pace del nostro Montaigne) al mito e all'auto-incantamento, insomma a non muovere nulla e, nel caso ci fosse del mosso, a quietarlo, disinnervandolo del dubbio e facendone da pensieri cose, solidità appunto di natura.
Ciò che dirò, a differenza dell'argomento così voluto da Berkeley per il suo tempo - tanto per stare agli autori citati -, non è stato scoperto soltanto ora, anche se poi mai a mio parere ben argomentato fino in fondo, ma ciò che è sicuro è che ora - e ripeto in primis a livello del Mondo 3, dei singoli non so bene né voglio sapere - è stato dimenticato.
Provare a rimemorarlo ritengo faccia bene alla scienza, che può essere sì aspirazione di pochi, ma anche vedremo alla salute, che è invece, più o meno, aspirazione di tutti. Nel caso, alla scienza della comunicazione e ai problemi ad essa connessi.
2. Il problema ripulito e messo a nudo
Comunicazione s'è detto e teoria della comunicazione. Con il primo termine si indica un'esperienza. Con il secondo, invece, il risultato di una riflessione: quanto la nostra mente, riflettendo sull'esperienza della comunicazione, ruminandola, ritiene di trovarvi di intelligibile e quindi, in quanto tale, di affermabile a sua esplicazione (descrizione profonda). Ebbene, tanto per non restare a menare il can per l'aia e andare subito al sodo, anche se il sodo può non essere così subito di facile digestione, ribadisco che la comunicazione è, sì, un'esperienza, cui tutti abbiamo avuto e abbiamo accesso, ma che la spiegazione standard che oggi ne danno la linguistica e la semiotica appare decisamente insostenibile: diciamo pure falsa.
Che l'esperienza della comunicazione sia un fatto non ci sono dubbi: qualcosa insieme siamo pure riusciti e riusciamo a fare. Riusciamo pur insieme a prendere, che so?, un treno, a organizzare un convegno, a stabilire delle regole riguardanti la comunicazione stessa. Son pure riuscito ad accordarmi con qualcuno per pubblicare questo stesso scritto! E poi, via, la mia fiducia nella sua possibilità non è implicitamente avallata dalla mia scommessa di poter dire queste cose al mio lettore? Che senso avrebbe, diversamente, una simile fatica? Se ritenessi, insomma, il suo fine negatomi in linea di principio, in partenza? Evidentemente così non è. Qualcosa che ci accomuna deve pur accadere, ma che questo qualcosa abbia la forma logica descritta dalla corrente teoria della comunicazione è tutto da vedere.
Comunicazione. L'esperienza in sé (come ogni esperienza) non ha nome. Non si nomina accadendo. Accade e basta. Se si nomina già lo fa uscendo da sé e teorizzandosi, osservandosi, guardandosi (non si dimentichi che all'etimo il teorico è solo uno che guarda) e allora si descrive, si rumina e così, in qualche modo e a qualche livello, si spiega. Non c'è nome senza una qualche implicita teoria che lo ponga e, viceversa, non si dà teoria che non finisca per nascondersi, se già così non nasce, appallottolata, rannicchiata, dentro un qualche nome. Nome e teoria sono tra loro legati a filo doppio e rifiutando l'una non si può non rifiutare anche l'altro. Ergo: il rifiuto della teoria corrente della comunicazione, qui programmato, dovrebbe trascinare con sé a cancellazione anche il nome di "comunicazione" dato all'esperienza in questione, con per me, al momento, non pochi problemi di linguaggio.
Mi trovo con un'esperienza reale. Tale esperienza ha un nome. Tale nome è funzione di una teoria di questa esperienza in procinto di essere rifiutata. Logica vorrebbe, allora, che si usasse anche un nome diverso per indicare tale esperienza, ma solo una teoria diversa (per i legami stretti che si sono visti intercorrere tra teorie e nomi) potrebbe generare questo diverso nome. Teoria diversa che però al momento non c'è o che comunque al momento, in piena pars destruens, non dovrebbe, anche se ci fosse, venire enunciata. Non resta allora che stare al vecchio nome, sospendendone però ogni valenza esplicativa. Usarlo e insieme non usarlo, insomma: metterlo, per così dire, in sonno. Cosa che le virgolette possono fare benissimo e così permettermi di attraversare da ora la redazione dei risultati di questa mia ricerca parlando della "comunicazione" senza necessariamente pensarla come tale e cioè appunto come correntemente tale termine ci invita a pensarla. E come correntemente la si pensa la "comunicazione", chiamandola comunicazione ? Quale la teoria corrente (standard appunto) della "comunicazione"? Dove guardare (e siamo al punto) per saperlo?
Bèh ! Volendo cercare la disposizione di una coscienza comune, ciò che nella coscienza comune viene appunto comunemente pensato, non si può che andare a guardare nei siti - tanto per stare a un termine oggi molto di moda - dove questa coscienza comune si manifesta come tale. Comunanza che, nel caso, appare - vedremo - veramente universale. E quale sito più comune a tutti del dizionario?
Ma perché dizionario e non dizionari, al plurale? Perché circa quanto è qui in gioco non si danno appunto, oggi, dizionari, ma un dizionario, uno e uno solo. Sì, i dizionari ci sono, fisicamente diversi, ma circa il modo di pensare la comunicazione si presentano ormai uniformati a un unico modello, a un'unica logica e quindi essenzialmente raccolti appunto in uno, anche se poi incarnato in materia linguistica e in formati cartacei diversi.
Immagini allora, il nostro lettore, qualunque sia la lingua e la nazione cui appartiene, di non sapere che cosa significhi il termine "comunicazione" e quindi di andare a cercarne il significato nel suo dizionario, nel dizionario della sua lingua. Quale mai la spiegazione che vi troverà? Non forse, all'incirca, "atto del trasmettere pensieri, idee, notizie" e allora "messaggi" ad altri? E "messaggio"? Non forse, circolarmente, "notizie, pensieri, idee, concetti comunicati a qualcuno", qualunque sia il mezzo usato? Così, nei nostri dizionari italiani, francesi, spagnoli, tedeschi, inglesi, americani, russi e così ho buona ragione di credere, in ogni altro dizionario di ogni altra lingua di questo mondo. Di ogni altra lingua nella quale esista, ovviamente, la parola "comunicazione", giacché in caso contrario si tratterebbe di lingue (di realtà) per principio escluse dal mio discorso e quindi inutilizzabili per limitare la sua estensione all'universale (sincronico, si capisce). Un discorso viene sempre fatto valere per un qualche universo di discorso, ma un universo di discorso che sia in linea di principio il suo, non d'altri. Non si può usare, che so, la prima crociata per ridurre al non senso un discorso circa l'universo dei pianeti, senza arrivare a presupporre che in qualche modo crociate e pianeti siano di fatto la stessa cosa. È per l'ambito insomma della "comunicazione" e della sua attuale definizione e solo per questo, ovunque esso si estenda, che il mio discorso intende valere, non per altro. Definizione della "comunicazione", che è ormai venuto il tempo, nei suoi meccanismi pensati di fondo, di esplicare e di vedere come tra loro, tali meccanismi, si vogliano congegnati. "Comunicazione" ovviamente in senso strettamente linguistico-semiotico, con l'esclusione dal suo campo semantico delle significazioni di quei movimenti non semantici che, anche per Derrida ad esempio, potrebbero esservi pensati inclusi [J. Derrida, Firma evento contesto in J. Derrida, Margini (della filosofia), Torino, Einaudi,1997 (trad. di M. Jofrida), passim..].
Avremo allora, secondo la teoria standard in questione, dalla parte dell'emittente (del parlante) una codifica, l'unione, insomma, di un concetto (di una serie di concetti) con una materia fisica (con un significante) e la sua trasmissione, il suo invio, in forma di pacchetto, diciamo, a un destinatario, il quale, ricevendolo, lo decodificherebbe (lo aprirebbe) trattenendone il contenuto (i concetti, il pensiero) e lasciando il veicolo che glielo ha portato, la materia fisica, il significante (il suono, nel caso della lingua verbale, la traccia visiva nel caso della scrittura ecc.), ormai inservibile, al suo destino [È pur vero che R. Jakobson, che indubbiamente molto ha a che fare col farsi standard appunto di questa teoria, in un suo luogo noto fa del ricevente (del destinatario) il luogo dell'incertezza comunicativa. Se io dico "miglio", egli esemplifica (Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, 1966, p.71), il ricevente, a differenza dell'emittente , non sa se pensare al miglio-graminacea o al miglio-misura , ma è pur vero, a), che si tratta di un'incertezza più di dizionario che di parole (in termini saussuriani), di discorso insomma, e che il discorso stesso, con la sua inevitabile contestualizzazione, toglierebbe di mezzo. Se la parola "miglio" venisse, infatti e per esempio, inserita nella frase "il mio canarino ha bisogno di miglio", il termine non potrebbe che significare "graminacea". Non ci sono dubbi.. E, b), soprattutto è vero che in ogni caso Jakobson non mette in dubbio la convinzione che qualcosa venga trasmesso, tant'è che rimangono un emittente e un ricevente e con essi l'idea che un qualche concetto, per quanto ancora indeterminato, venga trasmesso dall'uno all'altro.].
Ebbene, poco poco che ci si voglia veramente pensare, questa è una spiegazione che non sta in piedi. È la spiegazione, il modello della comunicazione, ovviamente semplificato all'osso e ai minimi termini, che i nostri figli hanno studiato e tuttora studiano sui libri di scuola nostri e di tutto il mondo al nostro omologato, ma, ripeto, poco poco che ci si pensi, facilmente ci si può accorgere che proprio non regge. Vediamo.
Se, per esempio, dico la parola "cane", dalla mia bocca non esce nessun cane, nessun animale in carne ed ossa. E fin qui tutti d'accordo. Nessuno di coloro che, nelle mie conferenze, mi ascolta mi crea, fin qui, problemi di sorta. Fin qui tutti d'accordo. Ma, a pensarci bene, non esce nemmeno il concetto di cane. Nessun pensiero, nessun concetto esce dalla mia bocca quando parlo. Nessun concetto viene inviato da me emittente al mio destinatario. Solo un processo fisico la mia bocca attiva; il destinatario registra soltanto le onde sonore che la mia bocca mette in moto, ma concetti proprio non ne riceve. E qui le cose, per molti miei ascoltatori - e forse qui per non pochi dei miei lettori -, cominciano a farsi invece complicate e inquietanti. Se la teoria in questione, quando dice di questo passaggio di concetti, vuole veramente dire ciò che dice, bèh! Sembra proprio dire chiaramente il falso. Se poi non vuole dire questo, ma oscuramente altro, bèh! Affari suoi! Non m'importa, giacché è questo che ai nostri giovani, che gli uomini comuni tutti, abitanti il su citato popperiano Mondo 3, realmente pensano della "comunicazione" ed è proprio la fallacia di questo pensamento che vorrei un poco, con questo mio scritto, provarmi a fare aggallare.
Del resto pensiamo ai nostri spettacoli televisivi, quelli di intrattenimento. Che fa il "mago" che vuole dimostrare di essere in grado di trasmettere il pensiero? Che fa?: Tace. Paradossalmente si potrebbe arrivare a dire, a riconoscere, che il fatto che noi parliamo, emettiamo insomma suoni, è la prova più evidente che, appunto parlando, non trasmettiamo pensieri. Paradossalmente, sì, ma perché stupirsi? Rammentiamoci di Berkeley !
Problema scientifico e paradosso sono sempre la stessa cosa. Problematica è un'esperienza che disattende le nostre attese, che va contro quelle che sono le nostre opinioni al riguardo, e paradosso all'etimo non significa proprio altro. Far scienza significa, così, riportare l'accordo: l'accordo tra il nostro sapere, la nostra mente cosciente, e la nostra esperienza, ripristinando la loro calettatura e, con essa, togliendo il problema. Sempre fino a prova contraria, si capisce, e sempre (qui sicuramente) generandone altri, diversi, ma la scienza così vive.
Ora il nostro problema appare chiaro. Abbiamo esseri viventi (uomini nel nostro caso) che, pur non trasmettendosi concetti, dimostrano in qualche modo, per esempio tramite i fatti, di pensare all'unisono. Ma all'unisono tramite quell'operazione che chiamiamo "comunicazione". È, così impostato, un problema squisitamente semiotico e, al profondo, di filosofia del linguaggio (come è possibile tale "comunicazione"?) e a tale problema, e solo a questo, questo mio scritto vuole provare a rispondere. : Non ad altro. Pregherei il mio lettore di non dimenticarlo. Non è in questione, qui, la possibilità della compresenza degli stessi concetti in menti diverse in situazione silenziosa, ma la loro compresenza a seguito dell'attivazione di quel processo fisico che noi chiamiamo "comunicare", che può coincidere con il parlare, il leggere o il far gesti ecc. Processo fisico senza il quale di "comunicazione" nel nostro senso, umano e terreno, non si può parlare. Ce lo precisava già S.Tommaso, molto bene. "Parlare è sì manifestare agli altri i propri pensieri", però precisava: "anche quando la volontà dispone un concetto della mente ad essere manifestato a qualcun altro, esso non è subito conosciuto da questo interlocutore, ma perché ciò accada, si richiede l'uso di segni sensibili." ["Unde cum etiam voluntas ordinat conceptum mentis ad manifestandum alteri, non satim cognoscitur ab alio, sed oportet aliquod signum sensibile adhibére": S.Tommaso, Summa theologiae, Parte I, q.107, a. 1.] Questo è, qui, il nostro (il mio) problema: spiegare la presenza degli stessi concetti in due menti separate (quella del parlante e quella dell'ascoltatore) a seguito dell'attivazione di quel processo fisico che appare proprio, anch'esso, della "comunicazione" così intesa e che chiamiamo significante o catena significante o segnale (catena di segnali) che dir si voglia [Ma, rigorosamente parlando, sarebbe meglio continuare a dire "onde sonore", "impulsi luminosi" ecc. piuttosto che segnali. A ben pensarci i segnali, nella misura in cui rinviano a qualcosa d'altro, sono già anch'essi segni e come tali non fuori ma dentro a tutto quanto intorno ai segni s'è e si sta dicendo? E poi segnale non viene da segnalare, appunto fare segni ?].
È utile tenere presente quanto ho detto per districare il nostro problema da una miriade di altri problemi ad esso inevitabilmente connessi e sapere alla fine che solo a questo s'è, qui, provato a rispondere. Non ad altri. E per evitare, inoltre, di potere essere accusati di non rispondere a questioni che con questo puro piano semiotico, dove il mio discorso vuole situarsi, nulla hanno a che fare. Esso incrocia infatti sì, natuliter, il problema, per esempio, del rapporto corpo-mente (innanzitutto, ci sono queste due realtà? E, se ci sono, "comunicano"? Se poi "comunicano", si rammenti Cartesio, dove collocare il loro reciproco attracco?), ma poi se lo lasciano inevitabilmente alle spalle. Qui non si tratta infatti di capire come in generale materia fisica e pensiero possano fare sistema, ma come, dati due parlanti, possa un concetto, pensato dall'emittente, apparire nella mente dell'ascoltatore a seguito di una sua semplice stimolazione fisica (sonora, visiva, tattile o altro che sia) attivata dall'emittente stesso. Dopo aver eventualmente fatto luce, se necessario, sul processo di significazione, cioè a dire sulle modalità di articolazione del continuum del pensiero, appunto, in concetti. Non altro. Non è, credo, chi non possa vedere come tutte le risposte possibili alla domanda circa la chiave del rapporto corpo-mente (pensiero), questione verso la cui soluzione, tra l'altro, i non lontani esperimenti di Eccles sembrano avere fatto un buon passo avanti [K. Popper, La conoscenza, cit., pp. 175/178.], non siano direttamente chiamate in causa, ma si pongano in fondo a monte rispetto al nostro problema semiotico. Saranno allora inevitabilmente guardate nella misura in cui risponderanno a quel problema, rispondendo a questo (al nostro), ma non, ripeto, direttamente in sé e per sé. In sé e per sé non ci riguardano.
E poi è inevitabile che il nostro problema incroci anche quello, da tormentone non meno secolare, dell'origine stessa del linguaggio (da dove il linguaggio? Da Dio? Dalla natura? Dalla storia? Ecc.). Anche questo implicato sì, ma da noi lasciato sullo sfondo. Non si tratta, per noi, di capire in senso stretto come nascano i concetti, ma come, ecco il punto, divengano semiosi. Anche se poi non è detto che la risposta al secondo problema non significhi anche una qualche risposta al primo. Ma ogni cosa a suo tempo.
Più allentati appaiono invece i legami con le questioni, pure oggi tornate da noi abbastanza in auge, della lingua universale e, con essa, della lingua perfetta e originaria. In fondo, chi può negare che dentro a ogni pratica comunicativa alberghi una più o meno esplicita aspirazione ad essere ogni volta perfetta e, perché no?, universale e anche, almeno in certe situazioni di particolare pathos e intensità, originale e allora, per recuperato omphalos vitale, originaria?
Vedremo. Se necessario s'approfondirà strada facendo. Bene. Qualcuno, tuttavia, potrebbe già fin da ora sentire di non potere proprio stare a questo mio discorso. Almeno di non poterci stare tranquillamente e quietamente. Come? Ma non c'è il codice, potrebbe pensare, a garantire il tutto, a garantire tale comune associazione di concetto e espressione, di significato e significante? Non c'è il codice a garantire la comunione dei concetti e quindi la "comunicazione" tra i parlanti? Non è questo che le nostre scuole dicono e insegnano? Eh! Eh! Sarebbe bello se la cosa si potesse risolvere così! Bello, bello, ma troppo semplice. Si tratta infatti di una ricorrente allucinazione che può essere tolta di mezzo, decostruita, allo stesso modo, per esempio, in cui Spinoza elimina l'illusione che Dio si sia tranquillamente fatto conoscere agli uomini tramite la pratica del parlare nel senso in cui noi la intendiamo, tramite parole insomma: "Poiché dunque stabiliamo una tale comunione tra Dio e l'uomo, sarà permesso chiedersi" precisa Spinoza " come Dio si fa conoscere dagli uomini, e, se questo avviene o può avvenire per mezzo delle parole o immediatamente e senza alcun intermediario" aggiungendo "per ciò che riguarda le parole, rispondiamo assolutamente no; in caso contrario l'uomo avrebbe dovuto conoscere il significato di queste parole prima che gli fossero state manifestate" [B. Spinoza, Breve trattato, Firenze, Sansoni, 1953 (trad. di G. Semerari), pp.120/121.]. Una circolarità viziosa e asfissiante, questa individuata da Spinoza, che alberga identica dentro alla convinzione che la trasmissione dei concetti possa essere garantita dal codice comune ai parlanti. Non è una convenzione il codice? E una convenzione non è un accordo? E la costituzione, la fondazione di un accordo non richiederebbe già, nel nostro caso, ciò che esso dovrebbe istituire e garantire, appunto la trasmissione dei concetti? Come fare diversamente a mettersi d'accordo? Volendo la "comunicazione" come una trasmissione di pensieri, anche il codice non può che essere pensato come una sua conseguenza. Non può che seguirla, non precederla. E diviene così inutilizzabile come sua spiegazione. Non è che il codice, come ben vedremo, non ci sia. C'è! E come! Ma la sua costituzione va pensata per via diversa da quella della trasmissione del pensiero.
Ma mi viene un atroce sospetto. Troverà il mio lettore, pur pensandoci, così perspicuo il fatto che da un emittente a un destinatario, nel processo di "comunicazione", arrivi soltanto un segnale fisico e niente altro: nessun pensiero, nessun concetto? Io ho ritenuto fin qui che bastasse richiamarci a rifletterci sopra per un attimo, perché tutti avessimo ad accorgercene, ma esperienze recentissime purtroppo mi hanno convinto che forse questa semplice riflessione può non bastare. Mi sono infatti trovato recentemente a raccontare a un amico quanto vengo scrivendo, dando per scontato che, almeno fin qui, fosse, come dire, d'acchito solidale con me, dando per scontato insomma di parlare a lui come al riguardo sto parlando con me stesso. E invece no; ho dovuto amaramente ricredermi: non mi seguiva affatto. Anzi! Il pensiero anche per lui, nella "comunicazione", viene trasmesso. Figurarsi la mia sorpresa, per non dire sconcerto! Non si trattava, infatti, di una persona qualsiasi, ma di uno specialista della materia. Un amico, autore di saggi linguistici, semiologici e di dizionari, diciamo così, per il loro verso trasgressivi e disincantati. Saggi e dizionari niente affatto sprovveduti e di molto stimati. Ora - sto pensando - se è così difficile vedere, anche per questo mio amico addentro alla materia, quanto a me sembra ovvio, figurarsi cosa può succedere a un mio lettore comune. E allora per tutti vorrei insistere nel dare, senza venir accusato dai più svelti di pedanteria, un ulteriore argomento utilizzabile per venirmi dietro in questo cammino così difficoltoso fin dal principio. Non con questo che pensi di poterlo sempre fare in compagnia, questo viaggio, per carità! Prima o poi, avventurandomi nel non pensato, naturale che mi ritrovi solo, ma così, subito in partenza, mi sembra un po' troppo. Del resto non è questo il problema. Chi teme di rimanere solo è meglio che rinunci a far scienza in partenza. Chi tenta di fare scienza sul serio viaggia in territori ancora non battuti dall'uomo o, se battuti, del tutto obliati e come può conciliarsi questo sguardo con la compagnia? In questi casi il bisogno di compagnia acceca, fa arretrare e può portare a deprecabili compromessi con se stessi. Il che non vuol dire che non ci si debba preoccupare dei nostri lettori. Se si scrive, per chi si scrive infatti se non per loro? Vuol dire preoccuparsi il più possibile di far "arrivare" a tutti ciò che si crede di vedere, non di uniformare il nostro sguardo a quello di chi non vede. Ed è proprio per questo, per non lasciare da parte nessuno che indugerei ancora sulla constatazione di partenza che vorrei da tutti condivisa.
Le argomentazioni in cui potrei coinvolgere il mio lettore scettico, per convincerlo di questa assenza di trasmissione diretta di concetti da un emittente a un destinatario nella "comunicazione", sarebbero numerosissime, ma vorrei limitarmi ad una soltanto che, a mio parere, tra le più convincenti è la più a portata di mano (diciamo di mente) di chiunque. Attenzione! Se ci fosse nella "comunicazione" trasmissione diretta di concetti non ci sarebbero per noi lingue incomprensibili. Il problema delle lingue sconosciute salterebbe di colpo, come di colpo salterebbero i problemi che più, stringi stringi, hanno turbato gli uomini fino addirittura (si pensi a quanto si racconta sulla morte di Raimondo Lullo) a farsi uccidere [U. Eco, La ricerca della lingua perfetta, Bari, Laterza, 1993: "La leggenda vuole che Lullo muoia martirizzato dai saraceni, a cui si era presentato munito della propria Ars, come di un infallibile mezzo di persuasione", p. 62. Figurarsi! Se non era riuscito a R. Lullo di "trasmettere" pensieri (a lui che tanto si era impegnato a individuare la lingua universale) come pensare che possa riuscire a chi nemmeno si pone questo problema? Dar per scontato che i pensieri passino da un interlocutore all'altro non è la prova che passano: questo mi pare proprio evidente.]. Le lingue sarebbero immediatamente la lingua, un'unica lingua per tutti, a tutti comprensibile e quindi universale, originaria e perfetta. Si pensi. Un pacchetto è un pacchetto e, - tanto per continuare perspicuamente, credo, con l'immagine popolare e concreta di partenza - qualunque sia l'involucro e il paese di provenienza, il suo contenuto è subito da noi raggiungibile. Con l'involucro non è subito presso di noi anche il contenuto? O no? Perché mai allora nella "comunicazione", così spiegata dalla teoria standard in questione, tali pacchetti (tali segni) provenienti da paesi (da lingue) sconosciuti (sconosciute) dovrebbero rimanere pacchetti percepibili chiaramente nella loro fisicità (grafica, sonora o altro che sia), ma di contenuto irraggiungibile e oscuro. Non dovrebbero essere immediatamente aperti e palesi nei loro contenuti, nei loro concetti? Una volta entrato nella nostra testa il significante fisico, non dovrebbe esservi entrato anche, con esso, il contenuto, il concetto insomma che essi, i segni, veicolano? Diversamente che strani pacchetti sarebbero i segni? L'involucro fisico (la carta, che so) dentro la testa e il contenuto dei pacchetti fuori? Ecco: pacchetti paradossali. Compito, però, della scienza dovrebbe essere quello di scioglierli i paradossi (un problema scientifico, abbiamo visto, ha sempre la struttura di un paradosso), non di crearli.
Meglio, molto meglio sospendere questo traffico immane di pacchetti e pacchettini a contenuto invisibile e vedere se questa zavorra di traffici, in cui la teoria standard della "comunicazione" ci vorrebbe tribolati e sommersi, sia del tutto allucinatoria e del tutto eliminabile e proprio alla radice. Ovviamente ripensando, e con più buon senso - il nostro, si capisce, e quale altro se no - tutta la "comunicazione" sotto tutti i suoi aspetti. Ripensandola, appunto, a partire dall'evidenza sensata, dalla sensata esperienza avrebbe detto Galileo, che concetti, tra il così detto emittente e il così detto destinatario, proprio orizzontalmente non ne passano. Ciò documentabilmente e quindi scientificamente e soltanto scientificamente parlando, si capisce. Ma è questa via e solo questa che qui interessa.
3. Vetustà del problema e teoria del "satellite"
Strada orizzontale, trasmissione orizzontale chiusa, s'è detto. Perché non ripensare allora un possibile rapporto emittente - destinatario secondo un diverso modello? Non casuale, si capisce, ma congetturato, e questa volta veramente, da quanto è lecito pensare accada nella "comunicazione", nella "comunicazione" a seguito di quanto fin qui considerato.
Ripensiamo un momento i dati, nel loro insieme e nei loro rapporti. Voglio io, dunque, "comunicare" al mio interlocutore il concetto di "cane". Bene. Che faccio? Vado, diciamo così, nella mia concettoteca mentale (dopo la biblioteca abbiamo ormai la paninoteca, la scarpoteca ecc.), vado insomma dentro alla mia testa, dove albergano i nostri concetti, prelevo il concetto di "cane", lo associo a un suono, confeziono in conclusione quel pacchetto di cui si diceva e mi accingo a inviarlo al mio interlocutore. Atto di codifica chiama la teoria standard in questione questa operazione e va bene. Codice infatti viene dal latino e, sappiamo tutti, ha a che fare con il legare insieme più cose e insieme io ho legato due cose: pensiero e materia fisica, concetto e suono! Si, ho confezionato appunto il pacchetto "segno". Bene, ripeto, fin qui nulla da dire. Ciò che non va bene è chiamare decodifica l'atto del ricevente. Se è vero, come è vero, che a lui arriva solo il suono è pur vero che egli non riceve nessun "segno" già costituito e quindi che non si trova davanti nessun pacchetto già confezionato da slegare, da sciogliere, per recuperarne il contenuto. Egli non può proprio procedere insomma a nessuna decodifica o apertura (slegatura s'è detto) di quanto l'emittente gli avrebbe inviato, perché di ciò che l'emittente ha legato gli viene inviato soltanto una parte, quella fisica e basta. Qui la teoria standard sbaglia, rigorosamente parlando si capisce. Ma può esserci scienza senza un minimo di rigore? Certo, si può, sì, metaforizzare anche nella scienza, ma sempre per dire più precisamente ciò che in altri modi sarebbe indicibile, non per sviarci da esso.
Dalla parte del ricevente non c'è né ci può essere alcuna decodifica, ma una seconda, autonoma e libera codifica: quando la "comunicazione" riesce, del tutto speculare alla prima, a quella del così detto emittente. No. Niente codifica da una parte e decodifica dall'altra, ma, ripeto, solo una doppia codifica, misteriosamente, miracolosamente all'unisono nella "comunicazione" riuscita.
Riflettiamo un po': siamo fasciati dal linguaggio come siamo fasciati dall'atmosfera e se le cose hanno un qualche rapporto con noi non possono che inevitabilmente averlo strutturandosi in esso e tramite esso apparendoci così come ci appaiono. Volendo quindi gettarle fuori dal linguaggio non si potrà che passare attraverso il linguaggio stesso. Non ci sono suoi aggiramenti possibili, pertugi incontaminati e laterali, come non ci sono appunto per chi voglia lasciare la terra avventurandosi fuori dell'atmosfera. E il linguaggio lo sa. Tal che ha apprestato parole di cui ci si può servire per rigettare le cose all'esterno del linguaggio stesso. A che servono infatti e per esempio parole come "cosa", appunto, "aggeggio" e così via? Sono in un certo senso parole paradossali, come dire una negazione del linguaggio tramite il linguaggio, parole capaci di rilanciare le cose fuori dal linguaggio, azzerandone ogni significazione costituita per riconsegnarcele (indicarcele) di nuovo impregiudicate affinché noi possiamo risignificarle a piacere.
È in tal senso che, nel caso, uso i termini "misteriosamente" e "miracolosamente" in riferimento all'esperienza "comunicativa". Non già per sottrarla a una qualche spiegazione scientifica, ma per ripulirla da quelle che ritengo inadeguate (quella standard in questione è una di queste) e consegnarla, se possibile, a una spiegazione diversa e più credibile.
Quale allora il modello diverso (la teoria diversa) attraverso cui ripensare più credibilmente e quindi scientificamente comprendere (sciogliere) questo "miracolo", questa anomalia, si potrebbe dire con Kuhn [T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969, passim.], della "comunicazione"? Se sorpresa e anomalia fanno sistema, un'anomalia finisce sempre per tenere qualcosa del miracoloso.
Così, di primo acchito, mi verrebbe in mente, anzi, mi viene sicuramente in mente il modello della comunicazione tramite satellite e non è detto che sia un'apparizione da considerare (non stupisca il mio lettore) necessariamente peregrina. Vediamo.
Nella "comunicazione" via satellite c'è "comunicazione", ma non c'è passaggio diretto di immagini dalla fonte alla ricezione. Poniamo: dall'America all'Europa e viceversa c'è "comunicazione" televisiva, ma tramite un terzo, un garante diciamo (il satellite appunto) della presenza delle stesse immagini nei due luoghi (fonte e ricezione). Perché non provare a pensare anche la nostra "comunicazione" orizzontale, diciamo, uomo-uomo secondo questo modello? Chi o che cosa fungerebbe in essa da satellite o da terzo o da garante che dir si voglia? Che pensare? Bizzarria? Stranezza post-prandiale? Pensata d'un bello spirito privo di idee? Bèh! Bèh! Fossi nel mio lettore andrei cauto a farmi prendere da simili giustizie sommarie. Non vorrei poi avesse, il supposto bizzarro, legioni e legioni di pensatori alle spalle e non affatto di secondo piano. Pensatori ovviamente obliati dalla teoria standard qui questionata, ma perché subito fare dell'oblio un valore! A volte indubbiamente lo è, ma a volte potrebbe trattarsi anche di semplice, grossolana, piatta e pigra insipienza.
Basti pensare a G.W. Leibniz, per esempio: un vero trionfo della teoria del "satellite". In ciò che d'altri rifiuta e in ciò che per sé propone. Ovviamente sempre in rapporto al nostro problema semiosico: la messa in moto di concetti tramite un lavoro sulla materia fisica, su una materia diversa dal pensiero. Non rifiuta forse egli degli Occasionalisti il ricorso, nel caso, a un "sorvegliante perpetuo" (sic)? Rifiuto intendiamoci solo di un particolare tipo di "satellite" non della necessità di postulare un "satellite" in sé. Tant'è che, per parte sua, ve ne mette uno, diciamo, più previdente e, come dire, decisionista, uno che toglie a sé il dovere d'essere sempre impegnato a sorvegliare e favorire i contatti comunicativi uno a uno, man mano che avvengano (come avrebbe dovuto fare invece il su citato "sorvegliante perpetuo" degli Occasionalisti) e cioè il Dio-orologiaio della sua armonia prestabilita ["Ho già detto che si possono ipotizzare tre sistemi per spiegare la relazione tra l'anima e il corpo, e cioè: 1) il sistema dell'influsso dell'uno sull'altro, che è quello seguito nelle scuole (la nostra teoria standard è ancora qui: non s'è mossa. Nota di L.N.) e che, nel senso in cui comunemente viene inteso, io, come i cartesiani, ritengo impossibile (è chiaro che anche Leibniz soffriva il nostro problema, nota di L.N.); 2) il sistema di un sorvegliante perpetuo (il satellite di cui in questo mio scritto si sta dicendo, nota di L.N.) che rappresenti nell'uno ciò che accade nell'altro, press'a poco come se un uomo fosse incaricato di accordare continuamente due orologi mal costruiti e incapaci di accordarsi; 3) il sistema dell'accordo naturale delle due sostanze, quale sarebbe quello di due orologi ben costruiti: sistema che io ritengo possibile quanto quello del sorvegliante e più degno dell'autore di queste sostanze ecc.": G.W. Leibniz, Scritti filosofici, cit., p. 212. Convinzione in lui radicatissima, tal che in altro luogo ribadisce: "...non vi è che Dio....che sia causa di questa corrispondenza dei loro (degli individui) fenomeni e che faccia sì che ciò che è particolare a ognuno, sia pubblico a tutti: altrimenti non vi sarebbe alcun legame." p. 80.].
Or non è qui in questione, al momento, la scientificità o meno di tale proposta. È in questione la consapevolezza del problema cui la sua proposta vuole dare soluzione. Problema che è appunto quanto la nostra teoria standard bellamente rimuove. Consapevolezza presente, per altro, pervasivamente nel nostro passato. Certo, ancora nel ricorso a Dio per tutte le posizioni assimilabili a quelle elencate (per esempio il Dio garante del sogno all'unisono di tutte le menti di Berkeley [Si veda, per esempio, quanto dice K. Popper in La conoscenza, cit., p.144.]: al mio lettore, per altro, il piacere di sbizzarrirsi a trovarne altre), ma anche in posizioni diverse, più laiche diciamo, come, che so, quella che ricorre a un'idealità trascendentale unica e comune a tutti gli uomini, dove i singoli troverebbero il loro termine medio, garante del loro reciproco attracco. Penso, per esempio, all'Intelletto "pubblico" di averroistica memoria [E pure tutte le teorie dell'autonomia di ciò che è collettivo (dalla, che so, coscienza collettiva di Durkheim alle teorie degli archetipi storicamente formati, in poche parole a tutte le teorie rapportabili al citato popperiano Mondo 3) non possono che essere, chi più chi meno, su questa stessa linea.] o anche, ripassando per terreni teologico-filosofici, alla Torah voluta platonicamente come l'universo degli archetipi, il luogo insomma di pronta unione degli intelletti separati; alle Lettere ancora della Cabala estatica [Cfr., per esempio, U. Eco, La ricerca cit., pp.34/38. Libro, per altro, questo di Eco utile in generale per informazioni su molti di questi problemi.] e pure allo spirito Santo [J. Grimm, Sull'origine del linguaggio in S. Grimm, F.W.J. Schelling, Sull'origine del linguaggio, a cura di G. Moretti, Ferrara, Gallio, 1991, p. 43.] o, perché no, alla figura dell'Angelo, il volto sacro dell'Ermes pagano. Compito degli angeli è anche, per S. Tommaso, quello di smantellare la discordia del nostro pensiero, di illuminarlo e di proteggerci dalle tribolazioni [S. Tommaso, Summa theologiae, Parte I, q.113, a. 6 e 8.]. Da ciò a dedurre, anche per essi, un ruolo di satellite garante della nostra umana comunicazione - non si dimentichi che essi seppur in vario grado danno tutti sulla mente unica di Dio - il passo è ben breve e più che legittimo: quale tribolazione infatti più grande della sofferenza generata in noi dai nostri reciproci fraintendimenti e incomprensioni comunicative. Quale maggiore discorde e tribolata solitudine?
Bene. Che farcene qui di questi "satelliti"? Nulla e moltissimo. Nulla, perché ci lasciano dal punto di vista scientifico al punto di partenza. Il problema rimane scientificamente senza risposta. Concordo con Popper nel ritenere scientifica una teoria non quando sia vera, ma quando sia in qualche modo possibile per essa elaborare prove intersoggettive di controllo. Prove difficili da elaborare per i "satelliti" qui elencati, fuori dalla loro autopromozione fideistica e tautologica. Verissimo, insomma, può essere tutto quanto tramite essi si intende testimoniare, ma inutilizzabile da un punto di vista scientifico. Ovviamente secondo quanto a me, da questo punto di vista, accade di riuscire a pensare. Utilissimi, invece, a ribadire la non peregrinità del problema attorno a cui sto lavorando: essi ne sono sintomo luminoso e autorevole. Da sempre gli uomini avrebbero potuto pensare che da un emittente a un destinatario viaggia un concetto, ma si sono ben guardati dal cadere in simile cecità oggi collettiva [Mi riferisco agli uomini più riflessivi e consapevoli. Abbiamo visto, infatti, con Leibniz per esempio, che anche per il passato la "massa" (la scuola) non andava tanto per il sottile.]. Le risposte che abbiamo visto non saranno accettabili scientificamente come sue risoluzioni, ma restano accettabili come prove della presenza consapevole del problema. Abbiamo detto prove solenni e autorevolissime e tanto più autorevoli quanto più storicamente diffuse. Certo, presuppongono la reciproca irriducibilità delle due sostanze in questione: la res extensa e la res cogitans, per dirla alla Cartesio. Ciò che i monismi filosofici, per esempio, rifiutano. Per un monista il nostro problema semiosico si risolve subito in quanto nemmeno sorge, subito non esiste. Muovere il fisico sarebbe subito muovere il mentale, trattandosi della stessa cosa. "Se guardiamo un guscio d'uovo dall'interno è concavo, se lo guardiamo dall'esterno è convesso. Ma la concavità e la convessità sono due aspetti della stessa cosa. Spinoza suggeriva che se guardiamo alla realtà dall'interno, essa è la mente, mentre se la guardiamo dall'esterno essa è la materia." Chiosa Popper [K. Popper, La conoscenza, cit., p.147.], commentando Spinoza. Suggestivo, ma sono con Popper nel loro rifiuto (nel rifiuto dei monismi): rifiuto scientifico, si capisce [K. Popper, La conoscenza, cit., passim.]. Il dualismo è credibile (se non altro al livello in cui la "comunicazione" si realizza, ma per Popper in generale mi pare) e così il problema resta. Anzi di più! Fin qui, scientificamente parlando, pare proprio non avere fatto un passo avanti dalla soluzione "miracolosa" in cui da sempre, dalle culture così dette primitive ai giorni nostri a ondate ricorrenti e successive, l'ha inchiodato la magia. Pianto uno spillo in un pupazzo qua e, là, una persona crolla a terra dal dolore: scelgo un concetto qua, nella mia mente, muovo una qualche sostanza fisica e lo stesso concetto compare fuori di me, là, in un altro luogo, in un'altra mente. Magia! Ha sentenziato la cultura ai suoi albori: pratiche proprio magiche la parola e la scrittura! Dono benevolo d'altri, d'un terzo extra-sperimentale ha sentenziato, abbiamo visto, la storia successiva nei suoi intricati, divergenti e a volte proprio diversi, movimenti. Dobbiamo veramente stare a questo esito? Dobbiamo, per evitare le secche di dabbenaggine della nostra teoria standard, rassegnarci al miracolo e alla magia? Possibile che non sia possibile (e chiedo venia per il gioco di parole) evitare questo dilemma passandoci in mezzo? Tentare insomma la via scientifica della sensata esperienza? Quale e che cosa il "satellite" per questa via? Il "satellite" in esperienza? Il modello indiretto, ormai s'è visto, è esigenza anche della scienza. Naturalmente in fase di congettura e fino a prova contraria. Di quella stessa scienza che ne apprezza l'assunzione da parte delle posizioni fin qui elencate, pur dovendone rifiutare i contenuti di riempimento. Ma è possibile riempire questo "satellite", questa funzione-"satellite" con un contenuto, con un'entità in armonia con la scienza? E se sì, quale?
Garante insieme epistemico e semiotico. Garante allora non solo della "comunicazione" interpersonale dei concetti, ma anche della loro formazione, della ( e qui i due problemi, come previsto, si ritrovano uniti ) loro nascita, di quella che usualmente viene detta la significazione. Non solo, allora, della riuscita del discorso, ma anche di ciò che ne garantisce la possibilità, vale a dire del famoso codice (ritorna qui la nostra idea del codice come entità non primaria, ma a sua volta garantita da altro). Anzi garante prima di questo livello che della "comunicazione".
Ora, se così è, se del "luogo" queste cose si possono legittimamente pensare, esso è la soluzione di tutti i nostri problemi. Ma perché mai dei termini fin qui usati per nominare il "terzo" della "comunicazione", che s'è detta non diretta tra emittente e ricevente, s'è scelto proprio quello di "garante", lasciando cadere l'altro, pur fin qui prevalentemente usato, di "satellite". Bèh! Così s'è deciso, perché l'immagine del satellite rinvia sì a un modello esplicativo della "comunicazione" diverso da quello lineare proprio della nostra teoria standard, ma non toglie tutto-sommato di mezzo l'idea della trasmissione dei concetti, del pensiero, da un emittente a un ricevente. Passeranno sì queste triangolarmente per un terzo polo, ma son pur sempre supposte partire da un emittente per essere alla fine raccolte, nonostante la sostituzione della relazione triadica alla coppia, da un ricevente, che è il residuo inquestionato che, alla fin fine e tutto sommato, resta anche in quel celebrante del tre per eccellenza che fu Ch. S. Peirce ["Quando un'idea viene trasmessa da una mente a un'altra ." egli non teme di dire nel suo La legge della mente ( cfr. Ch. S. Peirce, Scritti di filosofia, a cura di W.G. Callaghan, Bologna , Cappelli, 1978, p. 230 ) e così via tranquillamente in altri luoghi.].
Avviandoci alla fine del nostro percorso, conviene, invece, stringere la "cosa" sempre più da vicino e ripulire la teoria anche da questa impurità. Impurità fin qui di nessun intrigo, poiché fin qui la nostra preoccupazione era solo quella di portare la nostra attenzione sulla necessità di pensare, per spiegare la "comunicazione", a un modello triangolare e non lineare, ma che ora, al momento di mettere a fuoco più dettagliatamente la "natura" dei vertici di questo triangolo e dei loro rapporti, non può più rimanere tra i piedi: tutti i concetti sono contenuti del "satellite", del vertice medio tra emittente e ricevente, del terzo insomma, che diviene loro madre e loro custode e in quanto tale garante dell'incontro in esso e tramite esso degli altri due. Emittente e destinatario non si inviano concetti, ma si limitano a fare qualcosa per averne identica (e questo, ecco, è forse il termine giusto, vista la corretta analogia che arriva a istituire tra il nostro "garante" e una banca dati per computers) visura. Rigorosamente, in questa teoria che vengo proponendo del luogo: non so se, e può darsi fin qui, anche nelle altre più su riportate. Ma andiamo con ordine.
Intanto la chiamata in ballo del "luogo", volendo rispondere al problema di partenza secondo scienza (questa nostra, occidentale, galileiana, si capisce; e quale altra se no?) era inevitabile. Consegue dall'imprescindibilità, per la scienza, di fare attenzione alla (di partire dalla) esperienza. E può darsi, in questo nostro mondo fisico, esperienza, senza un luogo che strutturalmente proprio concorra alla sua realizzazione? Kant ci aggiunge anche il tempo, che, al momento, qui non interessa. E soprattutto vorrei lasciare Kant to the borderland, giacché col suo "spazio" rischia di introdurre nel mio "luogo" una metafisica che proprio non voglio, qui, tra i piedi. Luogo, quindi, inevitabile al cospetto della scienza.
Terzo, ad esempio, per due interlocutori eschimesi è, infatti, il ghiaccio, è il luogo dove vivono e lavorano, è la neve-ambiente - ambiente ancora, volendo, proprio nel senso con cui lo si usa, e l'analogia non fa che confermarsi, nel linguaggio dei computers -. Ipotizziamoli in origine, col continuum, direbbero i linguisti, del loro pensiero ancora intatto. Chi avrà articolato tale loro pensiero in concetti? Forse il loro bisogno di esprimersi? Ma niente affatto. Credo, prima di tutto - e mi pare evidente -, il loro bisogno di vivere. Facendo il verso alla filosofia si potrebbe proprio dire anche qui: primum vivere deinde loqui. E, per vivere, la loro inevitabile necessità di fare i conti con la neve e con il ghiaccio. Bisogno dell'un (eschimese) e non dell'altro? No. Bisogno identico per entrambi, per tutti gli eschimesi, bisogno comune. È il ghiaccio allora l'articolatore del loro pensiero in concetti: ghiaccio comune, concetti comuni. Tanti quanti le loro vitali pratiche della neve ne esigono. Attenzione! Non due concetti identici: uno nella testa dell'emittente e l'altro nella testa del ricevente, ma un unico concetto abitante in due teste fisicamente diverse, perché comune è la pratica, e unica, attraverso la quale il concetto si forma. Dal che, non due, non tre non quattro ecc. teste, ma, epistemicamente parlando, un'unica testa, un'unica organizzazione sostanziale (sempre per dirla con i linguisti) e formale del pensiero, organizzazione storicamente determinata fenomenizzantesi in tante teste fisicamente diverse.
Fin qui in rapporto alla formazione dei concetti. Dal punto di vista epistemico, insomma, l'emittente non è questo o quell'eschimese, questo o quell'individuo generalmente parlando, ma la natura del luogo: per gli Eschimesi il ghiaccio; per i Tuareg il deserto; per i Pigmei la foresta e così via. È la natura del luogo che seleziona i bisogni del popolo che lo abita e glieli restituisce, glieli emette, in concetti. Luoghi diversi, concetti diversi. È noto, tornando per esempio ai nostri pigmei, che il loro sistema di termini per parlare della foresta non è sovrapponibile al nostro: essi hanno termini che noi non abbiamo e viceversa. Naturale: i pigmei ci fanno tutto nella foresta, ci vivono, ed è quindi ovvio che ne pertinentizzino le caratteristiche (un concetto è sempre una pertinenza [Pertinenza, nozione specificatamente linguistica, che può però avere immediatamente valenza epistemologica di rilevante importanza. Fondamentali al riguardo le riflessioni di L.J. Prieto, già titolare della cattedra che fu di F. de Saussure all'Università di Ginevra e, purtroppo, recentemente scomparso.]) in modo diverso da noi. Da questo punto di vista molti modelli linguistici, compreso quello saussuriano, andrebbero rivisti e con essi la genesi del segno stesso connessa all'arbitrarietà.
Non è la lingua che ritaglia direttamente e in via primaria in concetti la nebulosa (il termine è questa volta di De Saussure [F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Bari, Laterza, 1962, passim.]) del pensiero, ma la vita, il rapporto vita-ambiente (compresi nell'ambiente i nostri simili e noi stessi per quella parte di noi che la vita deve attivare). E come può essere un ritaglio vitale arbitrario? La genesi del segno, dalla parte del suo contenuto e cioè del concetto, appare frutto di necessità, frutto della necessità profonda della vita e quindi simbolica. Non arbitraria. Arbitrario può essere ( e non è chi non capisca che qui si sta andando ovviamente più che di fretta e alla grossa, ma che si può fare ? Il fine qui è, ad evidenza, un altro ) il modo con cui poi, nel segno, tale concetto finisce per legarsi a un suono, naturalmente convertito psichicamente e mentalmente anch'esso in significante. Venga pure da dove vuole e come vuole, a caso fin che si vuole voglio dire, la materia usata come significante: qui non c'è necessità alcuna legata al concetto da esprimere. L'arbitrarietà può andare bene ed è credibile proprio a partire dalla diversità delle lingue. Ma solo, ecco, in primis diciamo, che poi, subito, bisogno di esprimersi (qui sì) e imitazione (imitazione interpersonale dei suoni) ne avranno fatto, subito ripeto e da quel momento in poi anch'essa necessaria, catena. E m'immagino ancora a triangolo: a triangolo tra invenzione, da un lato, e l'imitazione (imitazione fisica, che altro se no?) dall'altro, con, in mezzo e ancora una volta terzo a dirigere l'accordo, il concetto annidato nella pratica comune tanto all'"inventore" del suono che al suo imitatore. In conclusione costituzione del segno secondo lo stesso modello a triangolo con cui, nel luogo, si costituiscono i concetti: il luogo triangola emittente e destinatario, tramite le pratiche, per la nascita dei concetti; ogni pratica, a sua volta, triangola emittente e destinatario, mediante l'imitazione dei suoni (l'imitazione implica sempre l'invenzione, il reperimento e l'individuazione, di ciò che imita), per la nascita bifacciale del segno, per il dovuto legame insomma tra i significati (i concetti) e le loro espressioni (i loro significanti [Arbitrarietà, che in qualche modo il luogo ancora una volta assume, condiziona e, volenti o nolenti, dirige, tramite la naturale prossimità cui esso obbliga i suoi abitanti. Possiamo imitare i suoni percepiti, non quelli che non ci raggiungono.]).
Come risultato abbiamo il trionfo del luogo e delle sue pratiche e la conversione di quella, che fino ad ora abbiamo chiamato "comunicazione", in semplice auto-comunicazione del luogo con se stesso tramite i suoi abitanti. Questione, questa dell'auto-comunicazione, che vedremo meglio tra un po'. Stiamo intanto al trionfo del luogo.
Idea, anche questa, poi così peregrina, post-prandiale ecc. ecc.? O, anche per essa, è il passato generoso di compagnia? Vediamo. Leggiamo intanto, che so, Condillac. "Mais, a mesure que les hommes se sont répandus sur la terre, il s'est formé des nations séparéés - egli osserva - qui, se conformant aux lieux qu'elles habitoient, se sont accoutumées à différentes manières de vivre, et dont les caractéres ont été d'autant plus differens qu'il y a eu moins de communication entre elles." [E.B. de Condillac, Oeuvres complètes, Paris, 1798, IX, pp.22/23. La linea è la mia, anche se Condillac non pare arrivare, e per me incongruamente, a rifiutare ( ed ecco una delle tante posizioni schizofreniche già indicate !) la comunicazione come trasmissione di pensieri.] Un vero trionfo del luogo e, alla Montaigne, anche degli usi e delle circostanze (altri termini per noi centrali). Egli infatti continua: "Les circonstances modifient différemment ce caractére général (quanto di generale ci viene dalla natura) et, par les circonstances, j'entends le climat ecc" [E.B. de Condillac, Oeuvres complètes, cit., IX, pp.21/22.]. E prima ancora R. Simon, col suo ricorso all'utile quale principio strutturante la razionalità naturale, diversificandola in più lingue.
E giù ancora più indietro, a fondo nella storia, Lucrezio: "At varios linguae sonitus natura subegit/Mittere, et utilitas expressit nomina rerum." [Lucrezio., De rerum natura, V, vv. 1028-30.] E dopo, risalendo per i secoli, anche (s'oda, s'oda!) S. Agostino. L'Agostino, intendo, che pur nella diversa mira di una lingua unica e perfetta, pone nelle cose (ecco, lo si voglia o no, le cose non sono le stesse su tutta la terra!) il suo principio costitutivo [U. Eco, La ricerca, cit., p. 21.]. E poi ancora più su (molto più su) Hobbes e Locke e Montesquieu.... [Si può vedere, un poco su tutti questi problemi, anche il recente libro di M. Ioffrida, Decostruzione e storia della filosofia, Pisa, Edizioni ETS, 1996.] Ma poi perché non lasciare, anche qui, al mio lettore la soddisfazione di completare a piacer suo l'elenco: su e giù, dentro la storia, al di là d'ogni data classificazione e scuola? Lasciamogliela! Lasciamogliela! Così si renderà anche conto di ciò che, nonostante questa marcata prossimità, continua a dividere anche questa linea ( in tutte le sue posizioni ) dalla mia. Anche qui, nonostante tutto, nonostante la scoperta di questo ruolo primario, da questo punto di vista, del luogo, dell'ambiente ( appunto di un terzo ) si continua tranquillamente a pensare ( come già visto accadere in Peirce ) alla comunicazione come a un lavoro di trasmissione orizzontale del pensiero puramente binario. Una sorta di schizofrenia, direi e certo qua e là diversamente accentuata, che credo proprio vada tolta di mezzo, cercando di vedere il ruolo di questo terzo fin nelle sue più estreme e fondamentali conseguenze.
5. "Comunicazione" come auto-comunicazione
Auto-comunicazione del luogo con se stesso, abbiamo detto, tramite la "comunicazione" interpersonale dei suoi abitanti. Ovvio, se, come pare, le cose stanno proprio come si son viste nelle pagine precedenti. Al luogo corrisponde, epistemologicamente parlando, una cultura, frutto appunto della coltivazione reciproca (nel caso il termine "cultura" va riportato al suo etimo) uomo-ambiente. E alla cultura corrisponde inevitabilmente una coscienza collettiva come sua profonda struttura.
Ora una coscienza collettiva - come, del resto, una lingua (ma coscienza collettiva e lingua sono poi cose diverse? ) - non ha corpo fisico a sé e se si manifesta fisicamente non può che farlo, un po' come accade a certi tipi incorporei di alieni dei nostri film di fantascienza, attraverso corpi di altri. Nel nostro caso appunto quelli degli individui che essa ( la cultura, una qualche cultura), mettendoli in forma, raccoglie in sistema. Ne consegue che quanto si è visto è proprio inevitabile: dato un luogo (una cultura) non sono i suoi abitanti a "comunicare" autonomamente tra di loro, ma il luogo (la cultura, quella cultura) che tramite loro parla con se stesso (con se stessa): "comunicazione" palese tra individui come auto-comunicazione nascosta del luogo con se stesso, di una cultura con se stessa [Del resto, anche linguisticamente parlando, la parole saussuriana vale, come operazione linguistica, in quanto pertiene a una lingua, a un codice insomma, ancora in termini saussuriani a una langue. Rigorosamente parlando, ogni atto di parole o non è lingua, e allora è semplice materia sonora senza significato, pre-semiosica insomma, o è lingua (un atto di lingua) e allora è subito codice (langue) e solo di conseguenza discorso, parole. Questa inquietante identificazione, sempre rimasta latente nella corrente riflessione linguistica e semiotica, per non dire rimossa, viene qui, per questa strada della "comunicazione" come auto-comunicazione) della cultura con se stessa, finalmente alla luce e in modo definitivamente inevitabile.]. Auto-comunicazione, ovviamente, dove nessun concetto ha necessità di transitare, di spostarsi da alcuna parte (non dimentichiamocelo: questo era il nostro problema) giacché già presente da sempre in modo identico in entrambi gli interlocutori. Ben si fece allora a virgolettare il termine "comunicazione": non si comunica nulla; ci si illumina soltanto all'unisono - tipo occhio di bue a teatro - in qualcosa di già comune.
Anche qui con problemi immensi. E l'individuo? E la sua libertà? E la sua originarietà? E... E... E... Tutte questioni risucchiate prepotentemente a coscienza che però, ancora una volta, vanno lasciate, qui, fuori dalla porta. Dato e concesso, infatti, tutto (libertà, autonomia, volontà indipendente ecc. dell'individuo) resta il fatto che, semioticamente parlando, la comunicazione tra gli individui non può che risolversi così: in auto-comunicazione, ripeto, della cultura (del luogo) che li costituisce con se stessa, pena la loro reciproca incomprensione e quindi il venir meno proprio di quella "comunicazione" tra individuo e individuo, che così vigorosamente si vorrebbe difendere contro la temuta spersonalizzazione, frutto dell'auto-comunicazione di cui si sta qui dicendo. Certamente. Certamente, anche l'autonomia dell'individuo è un fatto. Non ci sono dubbi, ma non c'è scampo: se va, come va, compresa in quanto tale, in quanto tale va però spiegata non contro la suddetta piattaforma comune, ma soltanto in essa e per essa.
È verità del resto, anche questa, che gli uomini sanno da tempo e questa volta non solo a livello alto, di studiosi e specialisti della materia, ma proprio a livello popolare. Solo la nostra teoria standard pare ignorarla e agire addirittura perché arrivi a dimenticarla anche chi già la sa. Si rammenti il proverbio (e si sa che i proverbi sono la saggezza dei popoli): "moglie e buoi dei paesi tuoi !". Lasciando stare i buoi, che avrà mai voluto dire tale proverbio circa la moglie? Non forse questo al marito e, ovviamente, viceversa: vuoi una moglie con cui andare d'accordo? Con la quale capirti senza problemi? Ebbene, prendila del tuo stesso paese, del tuo stesso luogo e sarai contento. E questo ammonimento è forse pensabile venisse dato all'interessato laonde evitargli difficoltà di rapporti a livello di significante, di semplice traduzione sonora insomma delle espressioni da una lingua ad un'altra? Può essere anche, ma non è sicuramente la sua motivazione prima e solo a partire da una nostra falsa coscienza può essere fatta diventare la sua vera ragione. In realtà il consiglio, tutti intuiamo, veniva dato per altro, veniva dato per evitare all'interessato di venirsi a trovare in mezzo non a significanti ma a concetti (a significati ) diversi dai suoi. Paesi diversi: pensieri e concetti diversi. Persone dello stesso paese: non due persone diverse ma una stessa persona. Matrimonio perfetto! Un marito che solo in apparenza parla con la moglie, mentre in realtà non parla che con se stesso. Dicendo cosa? Ecco: i concetti che il rapporto con il luogo ha in lui ingenerato. E lo stesso vale per la moglie. Conclusione: parlando tra di loro non si trasmettono concetti, ma solo segnali fisici tali da guidarsi reciprocamente, stante l'esperienza comune e quindi la loro banca-concetti comune, alla illuminazione, alla "visura", abbiamo detto, dello stesso concetto [Stessa visura che, però, rigorosamente parlando, non appare primaria. Appare preceduta da quella implicita nel segnale fisico (abbiamo già visto che anche i segnali sono segni) con cui ci guidiamo a vedere lo stesso concetto. Nel segnale, insomma, che ci invita a tentare la visura comune, pare già albergare una visura comune che potremmo dire operativa, appunto l'indicazione a reperire all'unisono quel determinato concetto e solo quello e che potremmo dire meta-visura, non perché non abbia lo statuto del concetto, ma perché si tratterebbe sempre di un concetto strumentale, sempre al servizio del reperimento di altri concetti e mai fine a se stesso. Col che il segno, anche fuori dal discorso, si presenterebbe come qualcosa di ben più concettualmente complesso di quanto si vorrebbe: dentro uno stesso segnale (significante) avremmo concetti che rinvierebbero a concetti. All'infinito? No. Non direi. La co-imitazione dei parlanti che pare istituire gli uni (i primi concetti) in segno, unendoli a suoni comuni, parrebbe co-inscrivere in essi (nel segno stesso) anche gli altri, quelli di servizio, senza bisogno, per questi, d'altri segni. L'operazione apparirebbe una, anche se a più livelli.]. Alla sua, allora, comune evocazione. Evocazione, ecco il termine con cui sostituire - mi suggerisce il mio amico e attento allievo Felice Palmeri - il termine corrente di "comunicazione". E devo dire che, al momento, non vedrei obiezioni di sorta. L'accordo è così, tra i nostri due coniugi, inevitabile, pena la caduta del luogo stesso in schizofrenia.
Non vale l'obiezione: molte coppie conterranee si separano. Questo perché culture totalmente presso di sé, originariamente incontaminate insomma, (ecco la schizofrenia!) non si danno più. Tutto quanto qui si sta dicendo, lo si sta dicendo - ma non varrebbe nemmeno la pena di precisarlo, penso - in linea di principio. Non in linea di fatto, dove appunto le cose mai sono così nette e pure. Né vale l'obiezione opposta. Per esempio quella che vuole che coppie non conterranee vadano tra loro d'accordissimo (succede), giacché ormai, e sono ancora i proverbi a rispondere, "tutto il mondo è paese".
Avrebbe ragione allora - ed è da un po' che sento frullarmi nella mente questa di primo acchito possibile deduzione - il vecchio idealismo ! Auto-comunicazione della Coscienza con se stessa, dello Spirito con se stesso e nulla più. È, in fondo in fondo, la constatazione che si arriva a fare, ad esempio, anche per Gadamer e per altri che, in ambito ermeneutico, hanno avuto attenzione al linguaggio. Ora di Gadamer e compagnia non vorrei qui dire, ma per quanto riguarda quanto io vengo qui dicendo, bèh!, devo dire che la suddetta deduzione è possibile appunto solo di primo acchito, giacché riflessioni successive, anche rapide, la tolgono inevitabilmente di mezzo. La chiave è nelle iniziali dei termini: là, nell'idealismo, maiuscole (Coscienza, Spirito), qui, chez moi, minuscole, necessariamente. La frequentazione di questo livello semiotico mi ha sì portato a sfiorare l'Assoluto, ma al contempo mi ha (ci ha) da esso difeso (difesi) con la semplice e incancellabile constatazione che cultura e lingua, radicate ai luoghi, non possono essere diverse. E che c'entra con quanto si sta qui dicendo l'Assoluto? All'Assoluto s'addice una lingua unica, a sua volta assoluta! Proprio quella lingua sulla cui evidente assenza presso di noi, poggia la voluta sensatezza di tutto questo mio discorso. Si rammenti la prova decisiva costituita per noi, per il nostro problema di partenza (da un emittente a un destinatario non passano concetti, ma solo suoni) dalla irriducibile differenza tra le lingue.
Differenza non ridotta affatto - si faccia attenzione - dalla loro possibile inter-traducibilità. Possibile soltanto - lo si sappia o no - a partire da una qualche identità dei luoghi e quindi delle esperienze ad essi connesse. Anche la traduzione, insomma, implica un garante. Il più delle volte nascosto, sì, ai traduttori, ma ciò non vuol dire che non ci sia. Se la traduzione riesce c'è sempre. È ancora il luogo. Posso arrivare a capire ciò che una lingua non mia dice se ciò che dice è anche nella mia e allora se in qualche modo il suo "luogo" è anche il mio. Che potrà mai sapere un pigmeo della neve se non ne ha mai fatto esperienza, se non l'ha nemmeno mai vista ? Un po' come accade nell'archeologia. Riesco a dare la sua identità ad un reperto, se riesco a sapere in che pratica culturale era inserito. Con tanti saluti alla lingua (alla cultura) assoluta, sciolta cioè da ogni luogo e da ogni tempo.
Questo il lavoro del luogo sulla formazione del codice e abbiamo visto anche sulla "comunicazione" risoltasi, per virtù sua, in auto-comunicazione. Senza altri problemi, oltre quelli fin qui elencati? Senza altri problemi sì, finché non si incontra la vita dei segni nel campo dell'arte. Intendo nei luoghi dell'arte (gallerie, teatri, musei ecc.) con l'effetto d'aperta polisemia che li contraddistingue. Oggi di sicuro, ma in forme diverse anche per il passato. È una questione di cui mi sono occupato già a lungo anche nei miei libri precedenti, e che qui vorrei dare, nei suoi particolari, per scontata, limitandomi a sottolineare che la suddetta auto-comunicazione, grazie a quanto accade nei luoghi dell'arte, va pensata immediatamente suddivisa in due tipi di auto-comunicazione: auto-comunicazione monosemica (uniforme e monosostanziale, sempre per stare ai termini della linguistica [In particolare ai termini di L. Hjelmslev.], insomma per tutti) propria di tutti i luoghi che prevedono un uso pratico e strumentale del linguaggio contro un auto-comunicazione plurale e differenziata (polisemica appunto) per tutti i luoghi d'uso artistico del linguaggio stesso. Polisemica, intendo, in rapporto all'uso "comunicativo" che si può fare di uno stesso testo, di una stessa opera, dentro ovviamente allo stesso luogo ( luogo, nel caso, d'arte: museo, galleria , teatro ecc.) e nello stesso tempo.
Col che si comprende come la funzione del luogo non sia solo quella epistemica, quella cioè, come si è visto, di far pressione, tramite la sua natura (naturale in senso proprio o artificiale che sia) sul continuum del pensiero acciocché si divida in concetti, ma pure quella semiotica di stabilire poi le regole, le modalità d'uso semiosico ("comunicativo") di tali concetti; quella di stabilire, in conclusione, se poi tali concetti devono essere illuminati solo univocamente (non si dimentichi l'esempio dell'occhio di bue a teatro), come nella "comunicazione" (auto-comunicazione) pratica, o se, invece, possano essere da più punti di vista risignificati (risimbolizzati) come accade oggi nella "comunicazione" (auto-comunicazione) artistica.
Simbolizzati di nuovo rispetto a e in virtù di quali necessità, di quali bisogni? Non abbiamo infatti visto che una simbolizzazione non è mai casuale, ma sempre calettata a esigenze vitali? Esigenze capaci di risignificare i segni, inevitabilmente azzerati in quanto tali e riportati a pre-semiosica materia? [L'operazione di simbolizzazione, di metabolizzazione di qualche aspetto della realtà in concetto, generando significati (concetti) in prima istanza (se infatti già ci fossero non sarebbe necessario generarli) relega sempre ciò su cui "lavora" a materia pre-semiosica. Quando già non lo sia, naturalmente.]
Direi dall'attività liberata delle diverse concezioni (oggi appunto molteplici) dell'arte, sempre ovviamente legate a loro propri, e in solido con esse differenziati, paradigmi culturali, che un tempo si sarebbero detti ideologie e che ora preferisco dire, anche se in senso lato, visioni del mondo.
Sciolte tra loro o legate? Inevitabilmente legate, altrimenti come potrebbero tutte essere dette partecipi di questa nostra occidentale (e orientale, nella misura in cui anche l'Oriente si va occidentalizzando) cultura. Ma inevitabilmente legate (se è fatta salva la loro autonomia sostanziale) in modo soltanto formale, come lo sono, per esempio in politica, i nostri partiti al cospetto della Carta costituzionale che, salvaguardandone l'indipendenza, pur li unifica nelle regole - identiche per tutti - di vita.
Proprio di queste visioni del mondo (di queste poetiche anche, in senso stretto) è la produzione e interpretazione differenziata delle opere d'arte. Proprio della langue comune dell'arte (di ciò che, nell'arte, può essere considerato l'omologo appunto della Costituzione in politica ) è la fondazione delle condizioni che presiedono a questo variato accadere.
Aprendo questo scritto s'era anticipato che, a mio parere, questa messa in discussione della teoria corrente della "comunicazione" non solo avrebbe portato riflessioni utili a chi di tale esperienza scientificamente si occupa (cosa che, fuori da ogni falsa modestia, mi auguro possa accadere), ma anche alla salute di chi la pratica (di chi pratica la "comunicazione"), che ovviamente sono molto di più.
Speranza, devo dire, anche questa che non mi pare proprio insensata. Vediamo.
I fraintendimenti, i qui pro quo, i malintesi insidiano continuamente la nostra "comunicazione": chi non ne soffre quotidianamente? E chi, per altro, non soffre delle colpevolizzazioni ad essi connesse? Mariti, mogli, fidanzati, colleghi d'ufficio ecc., chi può dire di non essere mai stato accusato dal suo interlocutore di disinteresse verso i suoi discorsi e, magari, di insensibilità, di rifiuto del dialogo e così via? Credo molto pochi, per non dire nessuno.
E non presuppone tutto questo soffrire e lamentarsi - tutti questi soffriri e questi lamentari, si potrebbe dire, facendo il verso ai modi stilistici di un nostro importante poeta contemporaneo - non presuppongono, dicevo, delle attese? Attese ovviamente deluse? E chi le ha generate o, se non generate, prepotentemente giustificate, queste attese? Non forse la teoria standard qui in questione?
Se il pensiero passa da un interlocutore all'altro, ogni fraintendimento non può che essere frutto di imperizia o di disinteresse, quando non addirittura di malvagità. Imperizia ovviamente dell'emittente e disinteresse e malvagità del ricevente. Naturale allora che si scateni la bagarre e si generi, da un lato, frustrazione (ma perché sono imbranato? Perché non riesco a dire quanto intendo dire?) e/o quelle accuse all'interlocutore di insensibilità, malavolontà ecc. di cui s'è detto, e dall'altro, nel ricevente stesso, noie e insopportabili fastidi.
Tutto questo se il pensiero passa. Ma se fosse vero il contrario? Se fosse poi vero che non passa? Tutte le attese generate da questa convinzione dovrebbero cadere e con esse le connesse delusioni, con tutto l'armamentario psicologico indicato.
Come si fa ad essere certi dell'unisono nell'auto-comunicazione? Impossibile. Possibile soltanto nelle "comunicazioni" in cui il linguaggio prevede un ritorno operativo sul mondo, ma non in altri casi. Se dico, per esempio, a mia figlia "mi porti, per favore, la penna?" ed essa mi porta, che so un vocabolario, capisco che la "comunicazione" non è avvenuta, che mia figlia non ha autonomamente costruito nella sua mente gli stessi segni che io ho costruito nella mia e, senza che necessariamente debbano esserci colpe per qualcuno, si può ritentare. Ma quando la "comunicazione" riguarda contenuti che non prevedono tale "ritorno a terra", diciamo "contenuti" astratti, chi potrà mai sapere se l'auto-comunicazione all'unisono è avvenuta? Proprio nessuno. E se non era possibile avere colpevoli nel caso del linguaggio operativamente controllabile, figurarsi se ci possono essere in questo secondo caso. Nella "comunicazione" siamo tutti vittime e, se non lo siamo, non siamo per questo vincitori.
Via, allora, con la teoria standard in questione anche tutte le attese comunicative che essa genera, false e bugiarde. Non aspettiamoci il "miracolo", per niente. Solo così si potrà gioire se accadrà, naturalmente sapendo, contro il riproporsi del male, che anch'esso da un momento all'altro potrebbe svuotarsi, riempiendosi del nulla, suo contrario.