A partire da Malevich: come comprendere e spiegare l'arte*
di Luciano Nanni
*Conferenza tenuta a Palazzo forti di Verona in occasione della mostra su Malevich
all'interno di un convegno sulla didattica dell'arte.
Direi
che un buon avvio a quanto voglio dire
circa l'argomento indicato dal titolo sia costituito da una singolare
coincidenza tra i famosi " quadri neri " di Malevich e
quanto successo alcuni anni or sono al famoso gallerista italo-americano
Castelli. Nel ricordarlo, a poca distanza della sua scomparsa, Claudio
Magris approfitta, non ricordo in che giornale - credo su La stampa
-, di un aneddoto che lo riguarda per fare alcune considerazioni
sull'arte contemporanea in generale. Che cosa era successo a Castelli
di così potenzialmente emblematico? Aveva
organizzato a New York una collettiva in odore, prima ancora della
vernice, di venire chiusa, a causa della possibile offesa al comune
senso del pudore da parte di alcune opere
degli artisti presenti. Che fare? Rinunciare alla mostra o sfidare le autorità? Si
decise per una via intermedia: la mostra si sarebbe fatta ugualmente,
ma alla vernice il pubblico si sarebbe trovato di fronte a quadri
tutti coperti a lutto, coperti di tela nera. Come dire: guardate a
cosa ci costringe la censura, a non farvi
vedere queste opere e praticamente a ucciderle. A mostra aperta la
sorpresa di Castelli fu enorme: il pubblico non recepì
affatto la cosa come protesta, ma del tutto tranquillamente pensò
che quei quadri (quelle opere coperte di tele nere ) fossero le opere
e le contemplò estasiato, arrivando per fino a prendere appunti.
Magris, costretto al dibattito da altri interventi, non si sottrae
al sospetto che nell'arte contemporanea possa essere abbastanza presente
un filo di deplorevole inganno e mistificazione. A
un certo punto nel dibattito si inserisce anche Eco, che, in una delle
sue famose bustine di Minerva ( Espresso ), dice: "Non sono
stato interpellato, però mi permetterei di dire la mia". E che cosa dice? Dice che dovremmo trovare ormai, dopo Duchamp
e il suo Scolabottiglie, abbastanza normale la possibilità
di esperire artisticamente degli oggetti che non sono stati prodotti
con intenzione artistica. Che cosa fece
Duchamp? Duchamp prese lo Scolabottiglie e lo dislocò, semplicemente
lo spostò, dal negozio del cantiniere alla galleria d'arte. Diciamo
che questo oggetto è diventato arte semplicemente
perché ha cambiato luogo, anche se non ha subito alcuna modificazione
a livello strutturale. Così, dice Eco, dopo questo gesto dovrebbe
essere abbastanza facile per noi vivere artisticamente qualsiasi cosa,
anzi arriva a dire che se gli oggetti reali mi provocano lo stesso
piacere che potrebbe darmi la loro pittura, come dire, se una tela
di sacco reale mi dà lo stesso piacere della tela di sacco dipinta,
la mistificazione vera sarebbe dipingerla e non vivere artisticamente
l'oggetto reale. Solo che, così facendo, l'amico Eco, con cui di queste
cose discuto da vent'anni, non mi spiega il problema, non mi spiega
lo stupore di Castelli. Perché, vuoi che Castelli non conoscesse
Duchamp? Vuoi che Castelli, che fu uno dei costruttori dell'arte
d'avanguardia di tre quarti del Novecento non fosse
al corrente della poetica di Duchamp? Il problema è che, nonostante
sapesse questo, si stupisce. Eco in fondo gli dà un consiglio: "Non
ti stupire, sappi, ricordati, che c'è questo". Ma
questo è un consiglio etico, come dire è un consiglio di comportamento.
A me interessa invece ( e credo anche a tutti noi ) una spiegazione
teoretica; interessa sapere quale possa essere la causa dello stupore
di Castelli, nonostante la sua conoscenza della poetica di Duchamp.
La
causa, a mio parere, è l'ignoranza che abbiamo per abitudine circa
la potenza dei luoghi. Noi pensiamo inconsciamente che i luoghi siano
neutri, invece i luoghi hanno un potere formante autonomo fortissimo
ed è in genere più potente del potere formante che hanno gli individui
che li abitano. Perché è importante insistere
sul luogo? Castelli conosceva le poetiche
dell'arte del Novecento, ma era evidentemente all'oscuro del potere
formante che aveva il luogo che dirigeva: bastava la galleria d'arte
a far diventare qualcosa arte. Il luogo pubblico ( la galleria d'arte
è un luogo pubblico: può essere proprietà di qualcuno in particolare,
ma tutti vi possono entrare) è un'entità fisica, un significante per
dirla alla saussure, che, in quanto tale,
rinvia ad una significazione, a una convenzione, che è nostra. Il
luogo è, quindi, più potente dei singoli, perché rappresenta ciò che
è trasversale a tutti i singoli. Nella cultura i luoghi sono le epoche
storiche. L'opera e il fruitore nel Medioevo ubbidivano a delle logiche che sono
totalmente diverse da quelle che regolano i loro rapporti nella contemporaneità.
Polisemia chiusa ( allora ) e polisemia aperta (oggi). Questa polisemia
aperta di oggi potrei provare a spiegarla
in due modi: con un racconto, per semplificare, e poi magari con qualcosa
di puramente logico.
Nel
1976 mi trovai a dover fare un'introduzione a un libro di poesie di un autore che si chiamava Vittorio
Reta ( purtroppo scomparso da tempo ). Io ricevetti dalla casa editrice
Feltrinelli (io non conoscevo Reta, non l'avevo mai visto) il dattiloscritto.
Scrissi la mia introduzione e quindici-venti giorni dopo l'uscita
del libro mi arrivò una lettera da Reta (abitava a Genova, nell'appartamento
sopra quello di Sanguineti ) in cui diceva che non avevo capito
niente. Era in totale disaccordo con ciò che io avevo scritto nell'introduzione
al suo libro. Gli risposi che purtroppo non aveva scampo, perché non
poteva chiedere due cose contraddittorie: non poteva chiedere che
la comunità, che io rappresentavo in quanto
prefatore, considerasse poesia i suoi testi e nello stesso tempo pretendere
che la comunità li leggesse nell'unico modo in cui li leggeva lui.
Doveva scegliere, altrimenti sarebbe diventato l'assassino delle sue poesie. Se la verità
dei suoi testi era tutta scritta nella sua interpretazione, egli avrebbe
trasformato le sue poesie in una circolare ministeriale, vale a dire
in un oggetto fatto di segni, ma di uso
comune, pratico e quindi monosemico. Perché leggere ancora le sue
poesie ? Noi andiamo a leggere delle poesie
se pensiamo che c'è qualcosa che possiamo ancora scoprire: se tutta
la verità del testo è scritta nell'interpretazione che ne dà l'autore,
allora l'unica cosa da andare a leggere è questa interpretazione. Prove che la nostra coscienza collettiva
faccia coincidere l'dentità dell'arte in
generale con questa polisemia? Tempo fa Lara Cardella denunciò
un critico al tribunale di Messina o di Catania, non ricordo bene,
perché secondo lei interpretava il suo romanzo in un modo che non
corrispondeva a ciò che lei vi aveva scritto. Il giudice cosa fece?
Diede ragione al critico e torto a Lara Cardella. La stessa cosa per
Uto Ughi. Il giudice ha sempre dato ragione al critico. Ci sono delle
sentenze che nel campo dell'arte esautorano l'emittente. Non è così,
per esempio, nell'uso pratico dei segni. Se un giornalista scrive qualcosa e qualcun altro va in giro a dire
cose che non corrispondono esattamente a ciò che il giornalista intendeva
dire, il giornalista lo può querelare e sicuramente vince.
Nella vita pratica i segni sono regolati da una legalità che vuole
che il parlante sia proprietario di ciò che dice. Cosa
che non vale nell'arte. L'emittente, l'autore, resta
proprietario materiale dell'opera, ma ne diventa uno dei tanti
possibili fruitori a livello critico. Infatti io dissi a Reta: "L'unica possibilità che hai è di
usare la tua interpretazione come una delle tante possibili".
Ciò
che dico si riconnette ad un principio teoretico di carattere generale
ed è la distinzione tra 'soggetto empirico' e
'soggetto funzionale'. Noi sbagliamo quando pensiamo che il poeta
sia un corpo: noi chiamiamo poeta qualcuno-che-scrive-delle-poesie
non qualcuno in sé, slegato da questa funzione. Reta è 'poeta' quando
attiva la funzione 'produttore di testi' che propone come poesia,
ma quando Reta legge le sue poesie non è un poeta, ma un critico;
attiva la funzione critica e quindi entra dentro alla
logica con cui la cultura contemporanea regola la critica.
E valgono per lui le regole che valgono
per gli altri critici. Vorrei insistere su questo fatto.
Noi
siamo chiusi dentro al linguaggio come
siamo chiusi dentro all'atmosfera. Gli astronauti che vogliono uscire
dall'atmosfera terrestre in che modo lo fanno? Lo fanno in grazia
dell'atmosfera stessa ovvero la portano con sé dentro bombole d'ossigeno.
Noi possiamo uscire dal linguaggio in grazia del linguaggio stesso.
Il linguaggio lo sa e ha elaborato dei termini che gettano le entità
fuori dal linguaggio. Si pensi alla parola
"cosa" o alla parola "aggeggio", "affare" ecc. Esse sono
a semantica zero: sono parti del linguaggio che servono a
togliere il nome e quindi a gettare le entità fuori dal linguaggio
e possono spiegare tanti equivoci, anche nell'arte.
La
parola 'scolabottiglie' che cosa indica? Vediamo: se dico 'scolabottiglie',
o dico 'attaccapanni' a che cosa ci accade di pensare subito? A
un oggetto. Ma questo pensiero va decostruito,
perché, in realtà, la parola 'attaccapanni' non indica un oggetto,
indica una relazione tra un'entità e i panni, indica un uso, una funzione,
se volete, una relazione. Rigorosamente parlando, anche la parola
'scolabottiglie' non indica un oggetto, ma una relazione (una pratica
), lo-scolare-bottiglie, e ho l'idea precisa che tutto
il linguaggio funzioni così ( ma questa è un'altra questione ). Noi
stessi siamo un nodo relazionale vivente, abbiamo dei buchi, se li
chiudiamo scoppiamo. Ricordo che la mia maestra mi diceva che tra
tutte le parti del discorso quella più importante per comporre la
frase era il verbo, cioè senza il verbo non c'è frase, ma il verbo esprime un'azione.
Allora, se è vero tutto questo, quando Duchamp ha levato lo scolabottiglie
dalla relazione con le bottiglie ha tolto
ad esso l'identità di scolabottiglie, facendolo regredire appunto
a 'cosa'. Entrando poi in relazione con la galleria d'arte
lo scolabottiglie è diventato arte. Ciò fa scandalo ( all'etimo
scandalo significa inciampo ) per l'uomo comune che ognuno di noi
si porta dentro, perché è vittima di due ipostatizzazioni,
di due indebiti spostamenti di fenomeni in essenze. Egli, prima, trasforma
il nome della relazione nell'anima della cosa ( uno scolabottiglie
può esser solo uno scolabottiglie) e poi, siccome dove c'è un'anima
non ce ne può stare un'altra, si convince che è mistificatorio ( Magris
) considerarlo opera d'arte. Ma la mistificazione è frutto solo di questo doppio inganno
e della convinzione che le cose abbiano un'identità in sé. Le cose
di fatto non hanno nessuna identità e qualsiasi
cosa, entrando in relazione con i luoghi dell'arte, può diventare
arte. Perché? Perché l'artisticità non
ha a che fare con la struttura degli oggetti, ma a che fare con le
modalità d'uso artistico degli oggetti
stessi.
Provo
a spiegare questa verità anche in un altro modo. Due anni fa, mi sembra,
un giornale ha fatto circolare questo manifesto pubblicitario (il
prof. Nanni mostra il manifesto ): la Nike di Samotracia
presentava al posto della sua testa mancante una soup, un'opera
di Andy Warhol. Questo manifesto voleva
indicare il Museo ( l'arte )dove queste opere ormai vivono
insieme. Ma se queste opere stanno insieme dentro allo
stesso luogo deve per forza esserci un principio comune che
le tiene insieme e se io trovo questo principio, visto che il museo
è un luogo pubblico, trovo il principio dell'artisticità per il noi.
Dobbiamo
però essere preliminarmente d'accordo su una condizione logica: se
due cose stanno insieme in un luogo, deve esserci per forza un principio
che permetta loro di stare insieme. Se
due persone, per esempio, sono dentro ad una stanza o sono marito
e moglie o sono amanti o sono amici o sono parenti, ecc. Si potrebbe
obiettare: "Ma se non c'è niente in comune?". Ebbene allora sarebbero oggi extracomunitari e sarebbe questo
il principio che li terrebbe insieme. Se allora la Nike di
Samotracia e la soup di Warhol, due entità così diverse, stanno
insieme dentro al museo, deve esserci un
principio che le unisce. Solo che io userei qualcosa di ancora più
eterogeneo per illustrarlo, userei la Merda d'artista di Piero
Manzoni e I promessi sposi di Alessandro
Manzoni. In questi anni sto proprio discutendo con coloro
che chiamo 'gli adepti della volpe', una serie di studiosi
di estetica in Italia e fuori i quali dicono che non è possibile fare
scienza dell'arte perché quest'ultima non avrebbe un principio classificatorio:
l'arte raggruppa opere così diverse, così lontane l'una dall'altra
che non è possibile raggrupparle in 'classe' e quindi, se non è possibile
raggrupparle in 'classe', non si può dire quale sia il principio dell'artisticità.
Ma perché dicono che non c'è questo principio
classificatorio? Perché partono dal presupposto
che il principio vada cercato nella materia di cui l'opera è fatta.
Certo, se io parto per trovare ciò che tiene insieme la Merda d'artista
di Piero Manzoni e I promessi sposi di Alessandro Manzoni, cercandolo ella materia, nella loro
struttura materiale, non lo trovo. I promessi sposi si realizzano
come arte per noi soltanto nel costrutto mentale. I Promessi sposi
esistono in libri fisicamente diversi ( quale grande, quale più piccolo,
quale rilegato e quale no ecc), ma restano la stessa opera e ciò significa
che la loro identità d'arte si costituisce unicamente all'interno
di ciò che in essi non muta: il loro livello mentale, concettuale ( mancasse
una sola frase non avremmo più l'opera ). La Merda d'artista
di Piero Manzoni, invece, si costituisce interamente a livello della
sua materia e, se la concettualità c'entra, c'entra come principio
per renderne artistica la materia. Ora che cosa c'è di più lontano
tra queste due materie? E' un problema che Cartesio si pose scopertamente
e che è ancora del tutto irrisolto. Sono due realtà lontane e quindi
posso capire coloro che dicono: "Non è
possibile raggruppare in 'classe' l'arte, perché ci sono dentro delle
cose lontanissime". Così, guardando la struttura? Ma noi non siamo abituati a classificare ( la vita non è
abituata a classificare) le cose a partire dalla struttura.
Le
abitazioni non le classifichiamo come abitazioni
a partire dalla materia di cui sono fatte ( diversissime tra loro
) ma dalla pratica dell'abitare. Noi chiamiamo 'abitazioni'
tutti quei luoghi che ubbidiscono ad una certa convenzione
d'uso, quindi il principio è esterno. Posso allora chiamare gli studiosi
in questione 'gli adepti della volpe',
perché mi sembra che il loro ragionamento sia come quello della volpe
nella favola dell'uva: siccome la volpe non arriva all'uva, dice che
è acerba; siccome non trovano il principio, dicono che non c'è. Certo,
se si cerca una cosa dove non è è ben difficile trovarla
. Bisogna guardare dove essi non guardano, non nelle opere
ma nella loro modalità d'uso artistico.
Di fatto il principio che tiene insieme nell'arte I promessi sposi
e la Merda d'artista di Piero Manzoni ( la Nike
e l'opera di Warhol ) è la loro polisemia critica.
Torniamo,
così, al punto da cui siamo partiti. Prendiamo
un quadro di Malevich: nero o rosso che sia; in sé non ha alcun
potere a proporsi come arte, vi entra per una decisione esterna: o
della galleria ( pensiamo a Castelli ) o dell'artista stesso ( nel
caso, Malevich ). Una volta entrata nel circuito dell'arte,
l'opera comincia a permettere la pluralizzazione dei suoi discorsi
critici e insieme a controllarli. Ma li controlla in quale modo? Li controlla a tutti i suoi
livelli possibili.
Sul
quadro di Malevich sono legittimato a produrre più interpretazioni.
Io posso fare un saggio sul quadro utilizzando tutta la cultura che
ho. Se ho una cultura geometrica, posso in qualche modo farlo parlare
geometricamente; se ho una cultura, come dire, cromatica,
lavoro sui colori e posso fare un discorso di tipo fisico-percettivo,
estetico secondo l'etimo della parola; posso fare su di esso un discorso
simbolico, nel senso che il nero all'interno di una certa cultura
può rinviare a certe significazioni che cambiano con il cambiare della
cultura stessa. Naturalmente è possibile un controllo da parte di
coloro che conoscono la cultura che uso
per interpretare il quadro. Io posso interpretare La coscienza
di Zeno utilizzando la psicanalisi freudiana. E chi mi può controllare? Solamente uno
che ha letto il romanzo e che conosce la psicanalisi freudiana.
Ma questo è ovvio: solo chi già
conosce mio zio può dire che non mento se dico che la persona che
cammina con me è mio zio. Non altri.
Tutto
questo ha, poi, un risvolto sul piano della
didattica. Secondo me, perché, se è vero ciò che ho detto, in qualche
modo una sensata educazione estetica per i giovani dovrebbe avere
un'impostazione tale da eliminare ogni dogmatismo predeterminante.
In fondo, se anche oggi come in passato, i programmi della scuola
elementare hanno come fine la formazione critica della personalità,
io credo che il campo dell'arte possa essere proprio, se affrontato
correttamente, il luogo dove questa formazione critica possa meglio
esercitarsi per prendere coscienza di una diversità portata alle estreme
conseguenze come nemmeno in campo politico succede. In più c'è anche
un aspetto, direi, che non viene messo
in luce spesso: in una generale crisi di valori, in una situazione
in cui spesso il laicismo è considerato quasi incapace di proporre
a sua volta un sistema valoriale, in grado di costruire positivamente
delle relazioni, si potrebbe arrivare a dire che l'unico luogo in
cui il mondo può essere salvato è il mondo dell'arte, perché, proprio
a partire da ciò che ho detto, non c'è nulla che non possa essere
salvato nel campo dell'arte. È il mondo intero che può trovare nel
campo dell'arte una sua significazione, di un'intensità tale come
in nessun altro campo se non in quello religioso. Penso a San Francesco
e alla sua stupefacente capacità di trovare qualche lato positivo
in ogni cosa.