(Po)etica, estetica, epistemologia: per un modello unitario del comprendere critico. (I cosmi, il metodo, Book Editore, 1994) di Luciano Nanni
Conversazione tenuta nell'inverno 1989 presso l'"Ente bolognese manifestazioni artistiche" nell'àmbito del ciclo di conferenze avente per titolo: "Estetica e metodo - la scuola di Bologna"
Comincerei questa mia conversazione, intenzionalmente breve, rovesciando il titolo: mi occuperei prima di tutto delle questioni connesse con il termine "epistemologia" e successivamente di quelle che hanno a che fare con l'estetica e con la poetica. Entrerei, per altro, in tali questioni generalissime di teoria della conoscenza con un'autocitazione. Gesto che, in altri casi e in altre circostanze, si configurerebbe come imperdonabilmente narcisistico, ma che, in questo caso e in questa circostanza, mi pare invece del tutto conveniente e necessario. Conveniente innanzitutto al proposito che ha guidato A prof. Rossi nell'organizzazione di questo ciclo di conferenze e cioè alla sua intenzione di offrire a ciascuno di noi l'occasione pubblica di fare il punto sullo stato delle nostre ricerche, illustrandone i metodi e analizzandone gli sviluppi. Necessario, poi, al fìne di togliere le nozioni, elencate nel titolo, da questa loro secca pronuncia giustappositiva, inquadrandole, fuor da ogni impraticabile astrattezza, in qualche concreto confine spazio-temporale. Ognuno dei tre termini chiamati in causa rinvierebbe, infatti, per suo conto a secoli, per non dire a millenni, di riflessione e a biblioteche intere. Dimensioni alle quali sarebbe da folli anche soltanto pensare di potere, qui e ora, fare cenno.
Autocitazione, che potrebbe, per altro, essere letta, volendo, anche come frutto di una mia ospitale cortesia: toltomi subito di mezzo, potrò poi dedicarmi per intero a coloro che ho intenzione di chiamare in causa e lasciarh parlare liberamente. Ma veniamo finalmente a questa citazione da me stesso. Un lettore che avesse per caso - mi sia concesso fare il verso all'incipit di un famoso racconto di un altrettanto famoso scrittore italiano moderno - ad inoltrarsi nei miei libri, si verrebbe a trovare di fronte ad un elenco di autori forse sconcertante. Troverebbe riferimenti a studiosi forse un po' inattesi in libri di estetica: Saussure, Carnap, Russell, Heisenberg, Popper, Kuhn, Freud, Jung e cosí via. Gli orizzonti di provenienza sono dei piú diversi (linguistica, fìlosofia della scienza, semiologia, fisica, psicoanalisi, logica matematica, psicologia analitica ecc.) e un sospetto di accademico eclettismo, del tutto gratuito nella sua erudizione fine a se stessa, potrebbe essergli inevitabile. Provandomi a dimostrare, qui, che tutti questi pensatori vengono invece chiamati in causa a un diverso fine, vale a dire allo scopo di dimostrare che in tutti, pur se in termini diversi, si dà una stessa, unica e comune, concezione critica del comprendere, vanificherò - se ci riuscirò naturalmente - tale sospetto e insieme specificherò, da un lato, quelle delimitazioni che ho detto di voler porre a questa mia conversazione (ci si occuperà soltanto del '900 e, in esso, soltanto di una determinata linea di pensiero) e anticiperò anche, dall'altro, le modalità di lettura dei due termini, estetica e poetica, che mi sono riservato di considerare in un secondo tempo. Concezione comune del comprendere che vedrei, per altro, articolata, diciamo - un poco didatticamente -, in tre costanti e che mi proverò ad illustrare concretamente, citando, e tessendo a commento appunto, dagli autori indicati.
Comincerei con un prelievo da Ferdinand de Saussure. Saussure, ad apertura del suo Corso di linguistica generale, scrive: "La scienza che si è formata intorno ai fatti di lingua è passata per tre fasi successive prima di riconoscere quale è il suo vero ed unico oggetto. Si è cominciato a fare ciò che si chiamava la 'grammatica'. Questo studio, inaugurato dai Greci, continuato principalmente dai Francesi, è fondato sulla logica ed è privo d'ogni visione scientifica e disinteressata circa la lingua stessa; esso bada unicamente a fornire delle regole per distinguere le forme corrette dalle forme non corrette; è una disciplina normativa assai lontana dall'osservazione pura ed il suo punto di vista è necessariamente ristretto" [F. de Saussure, 1968, p. 9]. Si tratta di un frammento straricco di questioni storiche e teoriche. Al mio fine importa individuarvi unicamente quelle tre costanti teoriche di cui s'è detto.
Costante prima: comprensione come descrizione
Questa equazione (comprensione = descrizione e insieme = scienza) Saussure la pone scopertamente quando afferma che la scienza dei fatti di lingua deve farsi "osservazione pura", cioè a dire "visione disinteressata" dei fatti stessi. Disinteresse da intendersi alla lettera come implicita separazione (dis-) del soggetto della comprensione dalla cosa da comprendere e quindi come divieto posto al soggetto stesso di confondersi (inter/esse) con essa. Ne consegue, anche per questa concezione del comprendere, la validità dei postulati di ogni descrizíone e cioè la presupposizione che ci sia qualcosa di già dato e che il suo trasferimento senza modifiche dal punto di vista della conoscenza, in linea di principio si capisce, ad altro livello, nel caso alla coscienza, sia possibile. Saussure coglie ogni occasione per affermarlo vigorosamente. L'istituzione della lingua (delle categorie della lingua) è prerogativa esclusiva del parlante e se lo è del linguista lo è solo in quanto parlante. In quanto linguista strettamente inteso suo compito è soltanto quello di portare a consapevolezza quanto il parlante operativamente (inconsciamente) già sa (già usa). "La lingua" egli afferma "non esiste che nei soggetti parlanti" [F. de Saussure, 1968, p. 14] . E ancora: "La sincronia non conosce che una prospettiva, quella dei soggetti parlanti e tutto il suo metodo consiste nel raccogliere le loro testimonianze; per sapere in quale misura una cosa è una realtà, occorre e basterà ricercare in quale misura essa esiste per la coscienza dei soggetti parlanti ... > [F. de Saussure, 1968, p. 110]. In linea di principio, si capisce, che poi 'in linea di fatto gli incidenti di percorso (le con-fusioni) sono sempre possibili. Ma si tratterebbe di incidenti, appunto, non di modifiche volute come legittime.
Sappiamo delle grandi questioni critiche di cui è fatta oggetto la nozione di descrizione: innanzitutto del postulato che la vuole impossibile e poi, fatta l'epoché di tale divieto, del plesso che la vuole, nella scienza, fare corpo unico con la spiegazione, ancora (ovvio) criticamente intesa. Due questioni che direi, in questa occasione, non c'intrighino piú di tanto.
La prima, perché tautologicamente autodistruttiva: soltanto presupponendo di poter descrivere si può pensare di negare in assoluto la descrizione: l'impossibilità della descrizione sarebbe appunto, nel caso, l'oggetto descritto. Non che, intendiamoci, la descrizione sia in assoluto inevitabile [Esemplare in proposito quanto racconta C.G. Jung, nell'Introduzione all'inconscio in L'uomo e i suoi simboli (1984, pp. 85/86), dei primitivi del monte Elgon, in Africa, e della impossibilità di spiegar loro il modo di accogliere il sorgere del sole, alitando e sputando sulle mani tese verso l'astro nascente. Impossibilità non falsa, non dovuta quindi a cattiva volontà, ma alla loro condizione antropologica. La risposta alla domanda di Jung esigeva l'attivazione della descrizione e cioè esattamente di ciò che la cultura (rnitica ancora) degli uomini in questione non aveva attivato. La descrizione era per loro l'impensato e l'impensabile. "Il loro rituale - conclude Jung - era ovvio per me, ma non per loro: essi sapevano solo ripetere senza riflettere sulle loro azioni, di conseguenza non erano in grado di darsi una spiegazione"]. Lo è per la cultura (per quella porzione di storia) che cosí la vuole. E, al suo interno, tanto per chi vuole praticarla quanto per chi vuole negarla [Una delle tesi del mio libro è appunto che ogni comprendere è un accadere, un evento storico a sua volta": cosí H.G. Gadamer nella Prefazione all'edizione italiana a cura di G. Vattimo del suo Verità e metodo 1987, p. XLV. Affermazione che mi pare verissima, purché dentro a questo evento, una volta accaduto (ma anche Gadamer mi pare piú che d'accordo) il comprendere venga a sua volta compreso appunto come comprendere, come descrivere e non riconfuso con il costruire in senso stretto].
La seconda, giacché il comprendere di Saussure presuppone una descrizione non di superficie (non meramente fenomenica insomma) ma profonda, dove descrizione e spiegazione fanno inevitabilmente sistema. Oggetto della sua descrizione non è la parole, ma la langue e quindi il codice che, in quanto tale, può essere visto solo attraversando la parole stessa e la sua immediatezza di superficie. Da questo punto di vista la descrizione saussuriana non è una descrizione di effetti ma di cause, naturalmente dopo aver depurato la causa da ogni portato ontologico e averla ridotta a sinonimo di condizione costitutiva, in linea con un Kant a sua volta depurato di ogni residuo dogmatico, dei fenomeni per i quali si configura appunto come causa. La parole non trova infatti nella langue la sua condizione costitutiva? E non si può dire allora che la langue sia una delle sue "cause"?
Per dare adeguata immagine di questa costruzione o, forse meglio, disposizione teoretica, in altra occasione [L. Nanni, 1980, passim]. ho creduto di potere fare ricorso alle figure del Nautilus e del Bateau ivre nella risignificazione che ce ne dà il Roland Barthes dei Miti d'oggi [R. Barthes, 1966, pp. 78/79]. Il Bateau ivre è il battello che fa dire "io" al mare, rivelandone alla perfezione, a guisa di servizievole pantografo, ogni piú piccolo movimento e quindi, in Barthes, emblema del pensiero meramente fenomenico e di superficie. E Nautilus, al contrario, gli si configura come emblema del pensiero ipoteticamente teso al fondo, ma del tutto chiuso nella sua autonomia. Sappiamo della famosa autosufficienza del sottomarino del capitano Nemo. Se il Bateau ivre è generosamente al servizio (in balìa) del mare, si potrebbe dire suo scrivano, per il Nautilus vale il contrario: è il mare al servizio del sottomarino e del suo vagare. Emblema allora, il Nautilus, del pensiero in qualche modo positivo e dogmatico. Ebbene - solo per continuare a stare alle barche, si capisce, - una macro-imbarcazione, dove il livello del Nautilus sia costantemente aperto e problematizzato da quello del Bateau ívre, cioè a dire dall'attenzione ai fatti e alle loro vicende, e, viceversa, il livello del Bateau ivre sia a sua volta sostanziato da quello del Nautilus, intendo dire di spessore concettuale e orchestrazione teorica, mi pareva e mi pare l'immagine piú adeguata a raffigurarci questa saussuriana concezione del comprendere, insieme - s'è detto - descrizione (Bateau ivre) e spiegazione (Nautílus), e con essa di ogni altro comprendere che voglia criticamente dirsi tale.
Costante seconda: descrizione come comprensione del già compreso.
Si pensi: il linguista può descrivere soltanto una lingua che già conosce. Questa verità emerge in tutta la sua evidenza in quella voluta della linguistica che va sotto il nome di fonologia. Oggetto di studio della fonologia (penso ovviamente a quella fonologia che, con la Scuola di Praga - diciamo cosí - sulla linea di Saussure, s'è radicalmente distinta dalla fonetica tradizionale) non è il suono in sé, ma il fonema, cioè a dire il suono già determinato (definito) dentro e dalla pratica della lingua. Non altro. E tutto ciò apre almeno a due ordini di considerazioni.
Innanzitutto considerazioni circa l'inevitabile divaricarsi, in questo contrasto, dell'identità (del significato) del comprendere in questione. Comprendere, etimologicamente: cum/prehendere e quindi "includere" prendere con sé, si può dire, con azioni che si configurano statutariamente diverse, a seconda che la comprensione venga letta nell'ordine del "già compreso", cioè a dire dell'oggetto della descrizione (della comprensione intesa come descrizione) oppure nell'ordine del soggetto della descrizione (della descrizione intesa, ripeto, come comprensione) medesima. Nel primo caso si tratta di un prendere con sé il mondo (la realtà in senso lato, sia essa esterna o interna poco importa) da parte del soggetto in chiave sintetica, per coltivarlo (cultura e coltura vengono qui riportate alla stessa radice) e costruire cosí, di conseguenza, l'entità operativamente finita (il fonema, per esempio, nel caso della lingua; ma non solo: anche una certa grammatica a partire da tutte le grammatiche possibili) che poi può divenire legittimamente (la nostra mente finita può avere, in linea di principio, rapporti attivi unicamente col definito) oggetto di descrizione, nella quale l'operazione del "prendere con sé" si significherà inevitabilmente, come detto, in modo del tutto diverso. Non piú a statuto sintetico, ma analitico. Nella comprensione come descrizione non si tratta píú di procedere in prima istanza a lavorare il mondo e quindi, da un qualsivoglia punto di vista, a definirlo, ma di prendere semplicemente coscienza o, forse, di prendere sempre meglio coscienza di definizioni dalla pratica in senso stretto (dalla vita) già costituite. Qui, nel comprendere come descrivere, il soggetto non "prende piú con sé" orizzontalmente, per cosí dire, il mondo, definendolo secondo i suoi propri bisogni e le sue pratiche, ma prende verticalmente (se mai) con sé, a livello di coscienza, ciò che è già con lui a livello meramente operativo e in qualche modo inconscio. Nel linguista, in quanto scienziato, dovrebbe venire semplicemente a scoperta (non dimentichiamoci della centralità che tale nozione continua ad avere nella scienza) quanto nel linguista, in quanto parlante, già vive come costituito. E con ciò siamo al secondo ordine di considerazioni.
Se la distinzione tra soggetto e oggetto della descrizione va mantenuta - e va mantenuta, pena la nullificazione della descrizione medesima - esige però di essere ripensata in deroga al senso comune. Non si tratta piú di una distinzione tra cultura e natura, ma proprio di una distinzione all'interno della cultura stessa e solo di essa. Meglio allora parlare di due funzioni distinte della cultura (del soggetto, ovviamente m senso lato) tra loro cosí coordinate: a) una funzione (un'ideazione) che potremmo dire etica, da intendersi secondo l'etimo in modo neutro, che presiede appunto alla definizione in via primaria del mondo (dell'indefinito) a partire da un qualche bisogno e quindi da un qualche punto di vista, inevitabilmente incarnato, per cosí dire, in operazioni o pratiche ad esso convenienti e b) una funzione (un'ideazione) che potremmo invece dire epistemica preposta a comprendere in via secondaria (non si dirnentichi, che all'etimo, "epistemico" ha a che fare con l'essere "posto sopra") e quindi a descrivere, appunto, quanto la funzione etica produce, nelle sue logiche di funzionamento e di costituzione. Sintetica l'una, s'è già detto, analitica l'altra, con una circolarità poi inevitabile, visto il permanere dell'unicità del loro soggetto [Gli epistemologi che vogliono, oggi - e sono tanti -, l'impossibilità della distinzione tra soggetto e oggetto hanno per un verso ragione, giacché tutto avviene all'intemo del soggetto, ma per altro verso hanno torto, giacché poi, all'intemo del soggetto stesso, pare proprio si possa distinguere tra un soggetto che volta a volta finge da oggetto per se stesso e viceversa. E, dico, pare che lo si debba proprio a partire dai loro postulati: come potrebbero infatti essi, diversamente, postulare oggettivamente l'impossibilità della distinzione tra soggetto e oggetto?] . Non si danno ideazioni che a priori debbano essere dette primarie (etiche) e ideazioni che a priori debbano dirsi secondarie (epistemiche): si dà un parco unico di ideazioni che possono volta a volta entrare in una o nell'altra funzione. Non altro [H2O in sé non può essere detta né un'ideazione etica (produttiva, primaria), né un'ideazione epistemica (descrittiva, secondaria): lo si vede nel suo concreto uso. E la teleologia d'uso a decidere della sua identità. Se la uso per produrre acqua, diventa inevitabilmente un'ideazione del primo tipo. Se la uso, invece, per descrivere in qualche modo l'acqua che ho già, diventa inevitabilmente un'ideazione dei secondo tipo. E che poi non vuole dire che nell'un caso e nell'altro produzione e descrizione non siano compresenti e non facciano sistema (della descrizione e della produzione se ne dà ovunque, avesse pure a trattarsi della semplice produzione della descrizione stessa), ma solo che si presentano, nei due casi, diversamente gerarchizzate..].
Costante terza: la comprensione controlla se stessa.
Quanto s'intende raccogliere sotto questo punto consegue inevitabilmente da quanto già detto e in parte risulterà ripetuto, ma la ripetizione è necessaria a consolidare il nuovo, consistesse pur esso in semplici sfumature. La descrizione del fonema (di un eventuale sistema fonologico) non è controllabile sul suono in sé, ma su ciò che il suono è diventato all'interno della lingua (di una eventuale lingua). L'identità del suono in sé, per continuare con il nostro esempio, potrebbe essere in linea di principio congetturabile a partire eventualmente dalle diverse identità, che esso arriva o può arrivare ad avere all'interno della cultura stessa, sincronicamente e diacronicamente intesa. Con la conseguenza che tale identità del suono diventa poi, in linea di fatto, impredicabile. Meglio pensare, nel caso, a una sua fenomenologia continua, aperta e indefinita.
Il ritorno alle cose, per questa strada, va sempre inteso come un ritorno ai fenomeni e soltanto ad essi, in senso pregnante naturalmente, intendendoli come costrutti operativi - come usualmente anche si dice-, [Esemplare in proposito Gargani, 1975.] di cui non è illecito tentare l'interezza delle logiche di funzionamento e delle loro storiche ragioni. Si pensi, per stare a un altro esempio, all'indagine dei fatti storici. Supponiamo: a uno studio sulle crociate. Oggetto di tale studio non potranno mai essere le crociate in sé (chi può non essere d'accordo?), ma sempre e soltanto ciò che le crociate sono diventate nei documenti che "le parlano", vale a dire nelle inevitabili parzializzazioni cui sono state costrette (bene che sia andata) dalle lingue (dalle grammatiche), a loro volta parziali, grazie alle quali i documenti stessi sono stati prodotti. Documenti, per altro, dei quali non pare insensato tentare, in linea di principio - in essi le crociate sono passate dall'indefinito al definito - una descrizione. Abbiamo già visto che la datità finita dell'oggetto, in predicato di essere descritto, è uno dei postulati della descrizione medesima. In linea di principio, che poi in linea di fatto anche qui non si può mai dire, giacché potremmo poi sempre trovarci di fronte a uno storico (a un analista) del tutto incapace di attuare questa possibilità che pur, in linea teorica, gli è data.
Statuto, questo, del fatto storico che non cambia passando, volendo, dalla dimensione diacronica a quella sincronica. Un fatto storico (un evento) in presenza si dà logicamente a conoscere allo stesso modo, né piú né meno, di uno passato (assente). Descrivendo (giudicando) uno sciopero che ci coinvolge, per esempio, noi non descriveremo (non giudicheremo) mai lo sciopero in sé, ma ciò che lo sciopero è diventato nella nostra mente, lo sciopero insomma come nostro costrutto cognitivo, anche in questo caso necessariamente parziale in quanto realizzato a partire dal nostro luogo e dal nostro tempo (dalla nostra cultura ) [Penso a un famoso sciopero alla FIAT sul finire degli Anni '60 e a un altrettanto famoso dibattito organizzato, a partire da questo sciopero, dall'"Espresso" sull'oggettività o meno dell'informazione (e quindi della descrizione) cui parteciparono P. Ottone, U. Eco e altri. Eco, che in questo caso sosteneva l'impossibilità d'essere oggettivi, non mi pare ne uscisse retoricamente tanto bene, ma aveva ragione].
E cosí, senza accorgercene, argomentando delle crociate e dello sciopero, siamo passati dalla linguistica alle scienze umane in generale. E modello del comprendere critico in questione non appare cosí proprio solo della linguistica, ma anche delle scienze umane o scienze dell'uomo, che dir si voglia, in generale. Proprietà di cui queste scienze sono, per altro, e almeno in larga parte piú che consapevoli. Ne abbiamo conferma se, poco poco, gettiamo velocemente uno sguardo, come promesso, sul pensiero di alcuni degli studiosi da me dati in elenco ad apertura di questa conversazione. I tre principi indicati come regolativi del comprendere vi si ritrovano tutti, inverando sempre piú la nominazione che ho voluto loro dare di "costanti".
Si pensi a Carnap e alla sua distinzione tra linguaggio e metalinguaggio. Il linguaggio trova nel metalinguaggio la sua descrizione. E metalinguaggio trova nel linguaggio il suo orizzonte di controllo e entrambi si risolvono all'interno della cultura (della coltura, ripeto) del mondo come suoi dialettici livelli. Si pensi a Russell e alla sua teoria dei tipi. Esiste una differenza indebitamente valicabile tra gli elementi di un insieme e l'insieme stesso come loro forma comprensiva. Il "tipo" che precede trova in quello che segue la sua comprensione; questo trova in quello il suo orizzonte di validità. Ciò all'interno di una catena, dove gli elementi di partenza, pur non essendo insiemi, sono comunque costrutti percettivi, che costringono ancora una volta la problematica del comprendere all'interno del rapporto dialettico tra le sue predette funzioni e basta.
E cosí via fino a quell'orizzonte dove la distinzione tra soggetto etico e soggetto epistemico parrebbe piú difficile da porre: l'orizzonte di studio della psiche nel suo complesso. Vorrei qui limitarmi a citare, a conferma di quanto vengo estendendo, ancora C.G. Jung. Egli, nel suo Il problema dell'inconscio nella psicologia moderna, ad un certo punto perentoriamente afferma: "Fintanto che noi siamo presi dalla forza creatrice, noi non vediamo e non conosciamo nulla, non ci è concesso neppure di conoscere, poiché nulla è piú pernicioso e pericoloso, in quel momento, della conoscenza. Per potere conoscere occorre uscire dal processo creatore e considerarlo dal di fuori; solo allora esso diviene un'immagine che esprime significati. A questo punto, non solo ci è permesso di parlare di 'senso', ma anzi è un obbligo per noi di farlo. Ciò che prima era un puro fenomeno si trasforma ora in qualcosa che ha un significato, in qualcosa che è in relazione con altri fenomeni, che serve a particolari scopi e produce effetti sensati. Quando riusciamo a vedere tutto ciò, abbiamo la netta sensazione di essere riusciti a scoprire e a spiegare qualcosa. In tal modo ci rendiamo conto della necessità della scienza" [C. G. Jung, 1973, p. 45.]. Ora, non solo viene qui posta da Jung a chiare lettere la distinzione (il disinteresse) che abbiamo visto pregiudiziale alla descrizione, oltre che la necessità della sua pratica all'interno di un orizzonte che è soltanto quello della cultura in generale (o forse che il legame da lui posto tra conoscere e significato vuol dire qualcosa di diverso?), ma viene anche posto questo processo del conoscere come proprio della scienza tout court. E siamo cosí giunti a qualcosa di cui anch'io sono fermamente convinto. Il modello del comprendere critico di cui si sta dicendo non va pensato come proprio soltanto delle scienze umane, ma anche delle cosí dette scienze della natura, ovviamente nella coscienza piú corretta che, a mio parere, possano avere di sé.
Anche in questo caso mi limiterò, in ossequio alla regola del campionamento cui mi sto ispirando, a due esempi. Innanzitutto a Karl Popper. Che cos'è il suo Mondo 3 se non l'universo dei segni e quindi della cultura? E non è nel Mondo 3 che la nostra conoscenza del mondo 1 e del mondo 2, cioè a dire del mondo tout court , costituisce se stessa, i suoi oggetti e con essi anche il suo orizzonte di controllo? [K.R. Popper, 1975, passim]. Sappiamo di alcuni nodi questionati e questionabili, in Popper, circa la base di controllo delle teorie, ma il Popper al quale qui si intende fare riferimento vuole essere il Popper, per cosí dire, piú popperiano, quello del tutto in linea con la decisa rivalutazione (data la sua inevitabifità, almeno nei miei presenti termini, a livello etico) della antica mentis e delle necessarie conseguenze critiche che bisogna trarne. E poi, da ultimo e solarmente, a Werner Heinsenberg e a quanto egli afferma in Das Naturbild der heutigen Pbysik. "Non è piú possibile" egli constata "parlare del comportamento della particella, indipendentemente dal processo di osservazione. Questo ha come conseguenza che le leggi di natura, che noi formuliamo matematicamente nella meccanica quantistica, non parlano piú delle particelle elementari in sé, ma della conoscenza che abbiamo di esse. Il problema se queste particelle in sé esistano nel tempo e nello spazio non può quindi piú essere posto in questa forma, dato che noi possiamo parlare sempre e solo dei processi che avvengono quando vogliamo inferire il comportamento della particella dall'interazione tra essa e un qualche altro sistema fisico, ad esempio, l'apparecchio di misurazione. L'idea della obiettiva realtà delle particelle elementari si è quindi sorprendentemente dissolta, e non nella nebbia di una qualche nuova, poco chiara o ancora incompresa, idea di realtà, ma nella trasparente chiarezza di una matematica che non rappresenta piú il comportamento della particella, ma il nostro sapere sopra questo comportamento" [W. Heisenberg, 1985, p. 42.]. E ancora "la scienza della natura presuppone sempre l'uomo, e noi dobbiamo, come ha detto Bohr, prender coscienza del fatto che nello spettacolo della vita non siamo solo spettatori, ma anche, costantemente, attori." E, in fìne, ad estensione di questa verità della fisica a tutta la scienza della natura in generale: "Se si può parlare di un'immagine della natura propria della scienza esatta del nostro tempo, non si tratta piú propriamente di una immagine della natura, ma di una immagine del nostro rapporto con la natura" [W. Heisenberg, 1985, p. 54]. E cosí via. Non credo servano tanti commenti: le nostre tre costanti ci sono tutte. Possibilità della descrizione nella distinzione tra "l'uomo spettatore" e "l'uomo attore", rispettivamente "funzione epistemica" e "funzione etica" nel mio discorso; concezione endo-culturale (endo-colturale) dell'entità descrivibile e del controllo della descrizione medesima nella messa in parentesi della natura, in sé intesa, e nell'esclusione di un possibile rapporto descrittivo diretto con essa.. Anche qui non descriviamo, non osserviamo un'entità in sé, ma osserviamo e descriviamo (funzione epistemica) un'entità già coltivata, già definita (funzione etica) dai nostri strumenti. Non altro.
Si potrebbe, volendo, continuare con altri esempi. Direi che questi, che vi ho offerto, sono piú che sufficienti a documentare ciò che voglio dire. Siamo di fronte a una concezione del comprendere veramente trasversale a tutto il nostro contemporaneo e, a mio parere, piú consapevole sapere. Egualmente lontana dalle panie dell'essenzialismo indebito che da quelle del cosí detto strumentalismo o anarchísmo teorico che sia [Solo un residuo metafisica può permettere a Feyerabend, per esempio, il suo anachismo teorico: la presupposizione che le teorie scientifiche vadano ancora controllate sulla cosa in sé e non, invece, sulle sue pertinenze pratiche; la presupposizione, in parole povere, che la base di controllo delle teorie debba ancora essere pensata all'estemo della cultura (coltura) e non invece, come la linea da me seguita evidenze, al suo interno]. Sappiamo, nell'essenzialismo rifluiscono tanto la posizione tradizionalmente idealistica (le cose sono come noi le pensiamo) quanto quella comune da realismo ingenuo (pensiamo, conosciamo le cose come sono). Non si danno nel caso, dubbi sulla conoscenza totale della realtà: le difficoltà sono ammesse, ma prima o poi la storia le toglierà di mezzo. Diversa la posizione dello strumentalismo. In essa si dice: le nostre teorie sono semplici strumenti che ci servono per meglio muoverci nella realtà, ma nulla ci dicono circa la sua identità. Se nell'essenzialismo si afferma di conoscere (di potere conoscere) tutto, qui, nello strumentalismo, si arriva invece ad affermare che non si conosce nulla. Or bene, il modello del comprendere da me evidenziato si distacca sia dall'uno che dall'altro. All'essenzialismo dice: non conosciamo (non possiamo dire di conoscere) tutto. Allo strumentalismo invece dice: qualcosa conosciamo. Qualcosa possiamo sperare di conoscere, se non altro il configurarsi, appunto, dei nostri rapporti con la realtà e quindi le caratteristiche che la realtà in essi rivela. Cosí, stando a un dialogo di superficie, ché poi questa posizione critica, che incontra ora il mio consenso, sa quanto essenzialismo e strumentalismo siano, a livello profondo, legati. A fondo lo strumentalismo non è altro che il volto, direi furbastro, dell'essenzialismo. E volto con il quale l'essenzialismo, mascherandosi da criticità massima, tenta di non sparire. Per poter affermare di non sapere cosa sia il vero (strumentalismo), non bisogna poi di fatto ammettere (fu già argomento forte di Sant'Agostino contro gli Accademici) di conoscere il vero (appunto essenzialisticamente)? Curiosa cosa poi che la cultura contemporanea annoveri Heisenberg tra gli strumentalisti. Heisenberg connette la conoscenza agli strumenti, questo sí - l'abbiamo visto -, ma da ciò ad essere filosoficamente strumentalista ci corre molto e come. Non conosceremo tutto, ma qualcosa conosciamo. Egli, ripeto, ne è piú che convinto. Gli strumenti del fisico svolgono, per Heisenberg, lo stesso ruolo etico, istruttivo, che nel linguaggio svolge la lingua nei confronti del suono: definiscono la realtà per l'analisi e, anche per lui, è solo l'accesso a questo livello analitico che fa scienza la scienza. Ma l'analisi, correttamente intesa - e Heisenberg mi pare che sia piú che corretto al riguardo - implica, in linea di principio, qualcosa di raggiungibile e quindi di conoscibile. Giusta allora la classificazione di Heisenberg a campione di questo diverso modo di pensare il comprendere: modo che con Popper potrebbe essere detto dell'essenzialismo modificato [K.R. Popper, Tre differenti concezioni della scienza moderna, 1972, pp. 169/207] o, con altri - per esempio con Luis j. Prieto [L.J. Prieto, 1976, pp. 121/1403] -, del relazionalismo pratico (pertinenziale) e che invece io direi scientifico tout court.
Le sue radici arrivano lontano. Filosoficamente parlando, passando attraverso Kant, Cartesio ecc. arrivano sicuramente dalle parti di Protagora. Vorrei, però io, vederle un momento meglio nella via della scienza. Per esempio, già in Newton: "Dei corpi vediamo soltanto le forme e i colori, sentiamo soltanto i suoni, tocchiamo soltanto le superfici esterne, odoriamo soltanto e gustiamo i sapori: ma non conosciamo le sostanze intime con nessun senso, con nessun atto di riflessione ... " [I. Newton, 1965, pp. 794/95]. Ma poi, volendo, luminosamente in Galileo. Si rilegga questa parte di una sua lettera a Marco Welser (Velseri, in italiano) sulle macchie solari: "... o noi vogliamo specolando tentar di penetrare l'essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d'alcune loro affezioni. Il tentar l'essenza, l'ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Sole; né veggo che nell'intender queste sustanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de' particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall'uno all'altro. E se, domandando io qual sia la sustanza delle nugole, mi sarà detto che è un vapore umido, io di nuovo desidererò sapere che cosa sia il vapore; mi sarà per avventura insegnato essere acqua, per virtú del caldo attenuata, ed in quello resoluta; ma io, ugualmente dubbioso di ciò che sia l'acqua, ricercandolo, intenderò finalmente essere quel corpo fluido che scorre per i fiumi e che noi continuamente maneggiamo e trattiamo: ma tal notizia dell'acqua è solamente piú vicina e dipendente da piú sensi, ma non piú intrinseca di quella che io avevo per avanti delle nugole. E nell'istesso modo non píú intendo della vera essenza della terra o del fuoco, che della Luna o del Sole: questa è quella cognizione che ci vien riservata da intendersi nello stato di beatitudine, e non prima. Ma se vorremmo fermarci nell'apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco ne i corpi lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi... Voglio per tanto inferire che, se bene indarno si tenterebbe l'investigazione della sustanza delle macchie solari, non resta però che alcune loro affezioni, come il luogo, il moto, la figura, la grandezza, l'opacità, la mutabilità, la produzione ed il dissolvimento non possino da noi esser apprese, ed esserci poi mezi a poter meglio filosofare intorno ad altre piú controverse condizioni delle sustanze naturali; le quali poi finalmente sollevandoci all'ultimo scopo delle nostre fatiche cioè all'amore del divino Artefìce, ci conservino la speranza di poter apprendere in Lui, fonte di luce e di verità, ogn'altro vero" [G. Galilei, 1929-39, V. 5°, pp. 187/88].
La citazione è lunga, ma andava fatta. Che cosa di piú attuale? Delle nubi in sé (delle cose in sé) sapremo soltanto una volta passati a miglior vita, volendo il divino Artefice naturalmente. Qui, in questo mondo, accontentiamoci di provare a conoscesse alcuni aspetti in rapporto a un qualche paradigma di lettura: posizione, moto, figura ecc. e allora alcune loro relazioni con il nostro sapere (alcune loro affezioni) e niente piú.
Ebbene, tutte queste considerazioni sulla conoscenza, allorché le ho incontrate negli autori citati e in altri, si capisce, le ho trovate molto familiari. In esse mi sono sempre trovato a mio agio, mi sono mosso bene come se le sapessi da sempre. E le sapevo, non da sempre - è naturale - ma da diverso tempo. Le avevo apprese, in modo convincente, fin dai tempi dell'Università, frequentando le lezioni di Estetica (abbandono cosí l'epistemologia in senso stretto per passare, come preannunciato, all'estetica e alla poetica) di Luciano Anceschi. Ho avuto già occasione di ribadirlo a piú riprese; ricordo, anche al caro e compianto amico Giorgio Prodi, allorché mi chiese di leggergli, in dattiloscritto, il suo libro sull'uso estetico del linguaggio. In esso egli lamentava che in campo estetico tali avvertenze metodologiche non avessero ancora trovato spazio. "L'argomento è assai sfuggente", egli scriveva "la trattazione dell'estetica rappresenta nella cultura la piú eterogenea congerie di proposizioni raccolte sotto uno stesso nome. Il ruolo dell'osservatore è mescolato al fatto osservabile, ancor piú di quanto non accada per altri tipi di presa di contatto col reale: tanto che è diventata regola confondere chi parla di estetica con chi produce estetica, come se i teorici del problema fossero contagiati dai modi linguistici di chi lo sviluppa sperimentalmente (cioè di chi costruisce l'opera d'arte): infatti i termini usati nell'estetica hanno la stessa ambiguità e larghezza dei termini estetici. Ciò è reso quasi fatale dalla imprecisione dell'oggetto, e dalla totale mancanza di una metodologia scientifìca..." [G. Prodi, 1983, pp. 5/6] e cosí via. Ricordo che feci notare a Prodi che in gran parte ciò che egli affermava poteva essere anche vero (che era vero), ma che non poteva valere sicuramente in assoluto, giacché i criteri di metodo ai quali il magistero anceschiano da anni si ispirava mi parevano proprio quelli da lui (Prodi) auspicati e insieme gli stessi della concezione critica del conoscere qui delineata.
Non è difficile reperire nel pensiero di Anceschi le tre costanti fin qui trattate. Sarebbe lavoro da fare con calma e, come dire, con piú diligenza. Sarò invece costretto, qui - vista la tirannia del tempo -, a procedere un poco scheletricamente, anche se, mi auguro, senza tradimenti.
Chiarissima la prima costante, l'opzione per la descrizione (anche qui una descrizione profondamente fenomenologica, mai meramente fenomenica) nella distinzione postulata da Anceschi tra un orizzonte che egli chiama di scelta e un orizzonte che egli precisa di comprensione [L. Anceschí, 1989, passim.]. All'estetica pertiene come propria la comprensione, depurata di ogni tentazione normativa, dogmaticamente definitoria e interessata (tornano anche i termini, tali e quali) a privilegiare un qualche momento particolare, una qualche posizione parziale dell'arte rispetto alle sue logiche di vita, generali e appunto comprensive il piú possibile. Gesti, questi, propri di un altro orizzonte, quello che s'è detto della scelta, quello insomma delle poetiche, cioè a dire del pensiero legittimamente teso a pensare l'arte per farla, per produrla, fuori di ogni costrizione che non sia quella che l'arte decide di dare a sé stessa, per sé naturalmente e per lo spazio e il tempo (la cultura) per i quali intende porsi e si pone. Se una scelta anche nell'orizzonte dell'estetica va salvata (e va salvata), sarà sempre, da un lato, una meta-scelta per cosí dire (la scelta, come oggetti da descrivere, di scelte già poste in prima istanza dalla stessa vita dell'arte) e, dall'altro, una scelta attivata all'interno della descrizione medesima (tra diversi modelli possibili di descrizione e solo tra quelli).
La seconda e la terza costante poi trovano il loro corrispettivo, a mio parere, in questa stessa distinzione e nella riduzione fenomenologica (in senso strettamente husserliano, si capisce) che le è sottesa. Non le cose, nel caso le opere d'arte, in sé feticisticamente e naturalisticamente intese, Possono divenire oggetto della comprensione estetica, ma le cose (le opere) ricondotte sempre a costruiti storicamente configurati, a concrezioni conclusione di poetiche. L'opera non è mai solo l'opera (la materia non è mai solo materia): è anche poetica incarnata. E soprattutto poetica incarnata e allora il risultato di quella funzione costruttiva dell'uomo, ovviamente qui specificata nel campo dell'arte, che s'è detta etica e che s'è vista configurarsi come oggetto e insieme barriera ultima (di controllo) di ogni descrizione e comprensione che voglia dirsi criticamente corretta. Là, come anche inevitabilmente qui, e ora, nel pensiero di Anceschi.
Ma direi anche qualcosa di piú. La decisa opzione anceschiana per la sistematicità in deroga alla nozione di sistema, chiuso e astrattamente raziocinato e raziocinante, pone la sua idea di descrizione fin dal principio al riparo dal rischio di quelle cadute dogmatiche che, come una spada di Damocle, hanno continuato ad incombere su diverse delle posizioni precedentemente elencate, almeno fino a che non hanno coscienzializzato fino in fondo le avvertenze di Godel. Ecco, mi sentirei di poter tranquillamente affermare che, nel suo campo, questa opzione di Anceschi per la sistematicità ha svolto fin da subito e dall'interno, per chi ha voluto ascoltarla (per chi ha voluto darle senso) naturalmente, quel ruolo critico profondo che, per altre posizioni e per altri campi, è dovuto giungere dall'esterno, e a fatica ovviamente, dal teorema dell'incompletezza di Godel appunto.
Se una definizione allora può avere via libera nell'estetica (in tempo, ripeto, stringe e costringe a sfiorare gli argomenti) sarà unicamente di tipo formale, vale a dire una definizione vuota (la suggestione kantiana torna piú che opportuna) all'interno della quale possano essere accolte nella loro diversità e tematizzate nelle loro relazioni, in poche parole coadiuvate nella loro intrinseca aspirazione alla luce - alla luce l'una dell'altra -, le definizioni sostanziali delle poetiche.
Ora, come può l'estetica assolvere questo compito? Cosa si può fare a che questa osmosi critica poetiche - estetica non finisca in indebite chiusure e intoppi di sorta?
Beh! Intanto sul piano dell'estetica stessa vigilare a che in essa non s'annidi l'ideologia, intendendo per ideologia l'indebita estensione ad essenza, nel caso, dell'arte di una qualche poetica particolare. In questa situazione tutto verrebbe ritenuto già compreso e il diverso non potrebbe essere visto appunto come diverso, ma solo come non senso o errore. Vigilanza la cui via maestra mi pare la metodica e continua depurazione critica (decostruzione a senso) di ogni posizione teorica che, a partire dai predetti presupposti del giusto comprendere (presupposti diversi libererebbero subito, si capisce, le posizioni che avessero a porli da ogni nostra possibile critica, a meno che non avesse a trattarsi di quelle dei presupposti stessi), ambisca dirsi estetica.
E' vigilanza che anch'io, in questi anni e se mi è permesso recuperarmi dopo l'autocitazione di partenza, mi sono provato ad esercitare. Per esempio sul pensiero estetologico di R. Jakobson [L. Nanni, 1980, passim, e 1987, passim.] . Anche Jakobson, nella sua riflessione sull'arte, parte da presupposti del tutto in linea con quelli saussuriani e di conseguenza con l'epistemologia qui delineata. In Poesia della grammatica e grammatica della poesia, tanto per prendere un suo scritto a caso, egli afferma: "il linguista deve... tradurre per intero i concetti grammaticali, realmente presenti in una data lingua, nel suo metaliguaggio tecnico, senza alcuna imposizione di categorie arbitrarie o estranee alla lingua osservata. Le categorie descritte sono costituenti intrinseci del codice verbale, maneggiato dagli utenti della lingua, e non sono affatto 'convenzioni del grammatico', come persino attenti indagatori della grammatica poetica, quale ad esempio Donald Davie, erano propensi a credere" [R. Jakobson, 1985, pp. 339/40]. E non è come ripetere, anche da parte sua, che la descrizione deve essere disinteressata? Lo ribadisce, per altro e forse ancora píú scopertamente se è possibile, parlando dello studioso di letteratura e del critico letterario: "Purtroppo" egli lamenta "la confusione terminologica tra 'studi letterari' e 'critica' induce lo studioso di letteratura a sostituire con un giudizio soggettivo e censorio la descrizione... dell'opera letteraria. L'etichetta di 'critico letterario', assegnata a uno studioso di letteratura, è altrettanto erronea quanto quella di 'critico grammaticale' (o lessicale) che si volesse attribuire ad un linguista. La ricerca sintattica e morfologica non può essere soppiantata da una grammatica normativa; allo stesso modo, nessun manifesto che proclami i gusti e le opinioni personali di un critico sulla letteratura creatrice può sostituirsi ad un'analisi scientifica... dell'arte del linguaggio" [R. Jakobson, 1974, pp. 183.] Che è, invece, proprio ciò che, malgrado quanto qui afferma, finisce per succedergli, con tanti saluti alla sua programmata e voluta descrizione. Vediamo.
Sappiamo a che teoria giunge Jakobson nel tentativo di spiegare lo specifico della poesia e dell'arte in generale (non si dimentichi: egli si chiede che cos'è che fa di un messaggio verbale un'opera d'arte in generale e non una semplice poesia): la funzione poetica e cioè il principio d'equivalenza spostato dall'asse della selezione all'asse della combinazione in predominio, nel messaggio, sulle altre funzioni del linguaggio [R. Jakobson, Linguistica e poetica, 1974, passim]. Or bene se, volendo controllare quanta e quale poesia (arte) possa essere compresa da questa formula, la sottoponiamo alla prova del pensiero operativo, per esempio, di Percy Williams Bridgman, se insomma ci mettiamo a usarla come ideazione etica, come tecnica per produrre poesia (arte), ci accorgiamo che riusciamo a riprodurne ben poca, molto meno di quanta vorrebbe spiegarne (comprendere) Jakobson, che sinceramente non nasconde intenzioni descrittive da cronotopo universale [Egli non vuole rispondere alla domanda "che cos'è che fa di un messaggio verbale un'opera d'arte?", relativizzandola tramite qualche quantificatore spazio-temporale, cioè a dire: per la Grecia antica, che so, per a Medioevo, per il Novecento, per me, per te ecc., ma, se ben comprendo, proprio in assoluto (Linguistica e poetica cit.)]. Non solo non uscirebbe "Nel mezzo del cammin di nostra vita ... ", ma nemmeno "Sempre caro mi fu quest'ermo colle" e neanche, che so, "Piove. E mercoledì. Sono a Cesena"; non uscirebbero le "bottiglie" di Giorgio Morandi, il teatro di Pirandello e cosí via. Uscirebbero alcune poesie di Mallarmé, alcune di Hopkins, alcune dei poeti transmentali, forse alcune opere futuriste, ma non altro. Con tanti saluti al veto di immettere nella descrizione il proprio interesse di critico che Jakobson, in linea con la posizíone epistemologica qui delineata, s'era dato. Jakobson prende la poetica che ama, alla quale si trova in mezzo (alla quale appunto è interessato, si rammenti da dove siamo partiti), quella grosso modo simbolico-futurista, per ciò che il futurismo trascina con sé di quell'attenzione alla forma che fu già del simbolismo, e la eleva a essenza universale dell'arte, chiudendo di fatto quel progetto di comprensione, che, ripromettendosi di far scienza, voleva invece realizzare. Controlli simili potrebbero poi essere effettuati su altri: su R. Barthes, su J. Mukarovsky e cosí via. Si tratta di controlli che, in parte almeno, ho già fatti, ma su cui, qui, non è ormai possibile soffermarci.
Mi sia invece concesso, nell'àmbito di questa auspicata apertura del comprendere, fare ancora alcune considerazioni sulla nozione di interesse e sui suoi rapporti con la scienza. Marcello Pera, commentando le modalità del recentissimo annuncio dell'avvenuta scoperta della fusione nucleare a freddo negli Stati Uniti, dice: "Se le ultime notizie sono corrette, Pons e Fleischmann hanno dato un altro colpo di piccone ad un altro mito. Quello della scienza come attività cognitiva disinteressata che faceva inorridire Platone al solo pensiero delle conseguenze utili e redditizie. Perché si sono decisi, o sono stati indotti, a dare alla stampa prima che alla comunità scientifica la loro scoperta? Per prendere un Nobel a furor di popolo? Per bruciare la scoperta di un collega? Per il brevetto miliardario?... " [M. Pera, 1989, passim.] . Ebbene, devo dire che, quanto meno, simile argomentazione mi lascia ancora una volta interdetto. Sinceramente quando ho pensato al disinteresse in rapporto alla scienza non l'ho mai, dico mai, pensato in questi termini. L'ho sempre pensato, confortato in ciò - del resto - dagli epistemologi qui citati, come una questione del tutto interna al problema della descrizione stessa, come il divieto che lo scienziato dà a se stesso di immettere nella descrizione punti di vista costruttivi o etici che dir si voglia (il punto di vista, l'interesse ha libertà d'iniziativa nel momento di costituzione dell'oggetto che poi la scienza dovrà descrivere, non nella descrizione stessa), e mai come una questione riguardante la pubblicazione dei suoi risultati. Trovo piú che naturale che lo scienziato abbia interesse a far conoscere, e nel modo che egli giudica piú utile alla sua divulgazione, quanto egli crede di avere scoperto, indipendentemente dagli utili, in termini di soldi e di prestigio, che si potrà ricavarne. Qui non siamo piú nella scienza, ma nell'uso, direi, politico, in senso lato delle sue scoperte. Politica che non è detto affatto la comunità scientifica svolga sempre in modo onesto e corretto. Recrimina Pera: perché non limitarsi a comunicare la scoperta alla comunità scientifica, lasciando verginalmente fuori tutto il resto? Giusto, se la comunità scientifica fosse pensabile, a questo livello, cosí pura. Cosa che non è vera.
A questo livello, etico ripeto e non piú scientifico, la comunità scientifica pecca allo stesso modo della comunità in generale e tanto vale allora non fare distinzioni. Se non di piú, tanto è vero che a volte il suo aggiramento si rivela addirittura necessario alla vita della scoperta stessa. O che Pera non sa forse in quanti casi proprio la comunità scientifica ha interessatamente impedito al nuovo e al diverso di emergere. Ma niente scandali, anche gli scienziati sono uomini, che, a questo livello, non sono necessariamente piú scienziati, ma diventano direi necessariamente politici e come tali da considerare.
Ma torniamo píú strettamente a noi. Ci si stava interrogando sui compiti di un'estetica cosí delineata. Si è visto che il primo diviene necessariamente quello di mantenere aperto quel circuito del comprendere che essa pone, per cosí dire, a sua anima. Si è dato anche un esempio di come ci si può muovere per assolverlo. Ora, un altro è sicuramente quello di (mi si conceda la metafora) andare a caccia di poetiche ovunque esse abbiano ad annidarsi, che è come dire ovunque, nel campo dell'arte: nella produzione dell'arte stessa, si capisce, ma anche nell'editoria, nel mercato, nella critica (la decisione di pubblicare o di acquistare un'opera implica sempre, lo si sappia o no, una valutazione critica, cioè a dire la sussunzione dell'opera stessa sotto un'idea di arte - di bello - e allora, appunto, una poetica). Poetiche che poi possono presentarsi a diverso soggetto: singolo, di gruppo o plurale determinato e collettivo o diffuso. Caccia nella quale Anceschi è stato ed è tuttora maestro.
Per quanto riguarda me, mi sono ultimamente molto impegnato sulla scommessa della descrizione di una nostra, contemporanea, poetica collettiva, con i suoi divieti, i suoi permessi, la sua grammatica profonda, insomma. Si dànno operazioni, comportamenti, regole di gestione e di valutazione, istituzioni che collettivamente viviamo oggi, piú o meno intuitivamente, come proprie dell'arte e solo dell'arte e con cui ogni poetica singola o di gruppo (inteso come sotto-insieme dell'insieme collettivo, si capisce) si trova necessariamente a fare i conti. Perché non ipotizzare per essi un soggetto simbolico unitario (nel caso: il nostro, qui e ora)? Se un tale soggetto collettivo, unico e insieme diffuso, è sensatamente ipotizzabile come reale per la lingua, per esempio (anche nella lingua ogni nostra parole personale fa necessariamente i conti con la langue collettiva), perché non dovrebbe esserlo anche per l'arte? D'altra parte tutti gli estetologi, che hanno tentato e tentano l'identità dell'arte tout court, non credo proprio abbiano avuto e possano avere altro obbiettivo.
Naturale, per altro, che a questo livello diventi importante la semiologia: una coscienza collettiva non si rivela mai (ovvio) con dichiarazioni dirette, ma sempre indirettamente tramite le pratiche che attiva e quelle che cassa, appunto allora attraverso i suoi segni. Operazioni, tutte queste, che, per quanto personali (la responsabilità della chiamata in causa della semiologia o della semiotica, che dir si voglia, è naturalmente tutta mia), mi paiono ancora nella piena prospettiva della scuola estetica della quale qui - se è vero che essa s'è fatta anche, in ultima analisi e per dirla con Lino Rossi, "sistematica dei sistemi" [L. Rossi, nella presentazione del programma del ciclo di conferenze di cui questa fa parte, a cura dell'assessorato alla cultura del Comune di Bologna e dell'Ente bolognese manifestazioni artistiche: 27 gennaio/27 aprile 1989.] - si viene, a più voci, delineando il profilo.
Grazie.