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L'unità della scienza e il ritorno della filosofia (Parol 8, 1992)

di Carlo Sini


Come conosciamo oggi la scienza? Che idea, che immagine abbiamo di essa? E il suo metodo? E bene pensarla dotata di metodo o è più ragionevole credere che ne sia priva? Se con metodo, va esso pensato come unitario o no? Queste alcune delle domande che abbiamo rivolto a diversi filosofi della scienza e alle quali questo saggio di Carlo Sini sapientemente risponde. Questo dibatto ospitato su Parol è tuttora in corso. Oltre a questo di Sini fin ad ora abbiamo ospitato preziosi interventi di: Edgar Morin (Parol n° 9, 10), Leonard B. Meyer (Parol n° 11), Paul K. Feyerabend (Parol n° 12), Ettore Verondini (Parol n° 13), L. J. Prieto e Luciano Nanni (Parol n° 14).

(Luciano Nanni)

Due problemi epistemologici incalzano da tempo la riflessione sulla scienza. E primo concerne la definizione e la delimitazione dei metodi e delle conoscenze che possono considerarsi scientifici in senso proprio. Neè esempio la domanda "è scientifica la psicoanalisi?" sulla quale molto si è discusso e ancora si discute. E secondo problema concerne la specializzazione della ricerca scientifica,ilcui incremento vertiginoso e inarrestabile crea una babelica confusione di linguaggi e di oggetti e l'impossibilità per chiunque di attingere una visione sia pur parzialmente unitaria del panorama delle conoscenze scientifiche. Di qui la frantumazione e la dispersione del senso (del senso complessivamente "razionale") della ricerca. Un matematico che vada oggi a un congresso di matematici (esemplificò una volta Ludovico Geymonat)non e in grado di comprendere tutto ciò che dicono i suoi colleghi; comprende solo i discorsi che riguardano quel settore particolare della ricerca in cui egli si trova attivamente impegnato. Una definizione unitaria della scienza matematica, o una sua "fondazione" come ancora si tentava agli inizi del nostro secolo, appaiono obiettivi impossibili e anzi incongrui con le svariate metodologie di fatto perseguite. Che cosaè la matematica, in che modo essa contribuisce al generale intento conoscitivo della scienza divengono domande obsolete; entro la stessa matematica si disegna una molteplicità di mondi e di universi possibili, abitati da oggetti inconfrontabili e irriducibili, incarnanti valori di verità eterogenei. Se questo è vero per la sola matematica, è facile farsi un'idea del quadro complessivo, entro il quale alle scienze tradizionali (si pensi allo schema limpido e semplicissimo della classificazione delle scienze che Comte disegnò centocinquant'anni fa e che rimase valido per parecchi decenni) si vanno da tempo aggiungendo e sempre più si aggiungono nuove discipline, scienze di confine, saperi inediti e campi e oggetti di ricerca inusitati. La scienza scoppia per troppa abbondanza, esplode per un eccesso di salute e di forza. Ma è poi vera abbondanza, reale salute?

Gli epistemologi contemporanei hanno fornito varie e interessanti risposte ai problemi sopra sollevati; le loro risposte, concernenti sia la storia sia la teoria della scienza, sono sovente in contrasto, il che è inevitabile e contribuisce del resto ad arricchire la nostra coscienza critica e la comprensione utilmente problematico di quel complesso insieme di questioni che va sotto il nome di scienza. Il mio contributo segue qui essenzialmente un'altra via. Esso potrebbe caratterizzarsi come il tentativo di considerare i due problemi sollevati all'inizio da un punto di vista strettamente filosofico. L'utilità di tale prospettiva non deve essere preliminarmente garantita in base a considerazioni aprioristiche; essa va mostrata, se lo può, in base ai risultati che ne possono derivare, cioè relativamente al contributo di chiarificazione che, grazie a essa, può essere raggiunto.
Affrontiamo dunque il primo problema: che è scienza? Una risposta che miri ai contenuti di questa o quella scienza, oppure che si riferisca a criteri metodologici di vario genere, rischia inevitabimente i limiti e perciò l'inconsistenza immediata o futura delle sue stesse scelte. Ma la filosofia deve e può considerare la domanda a partire da una differente prospettiva. Essa non privilegia un modello scientifico in atto, ma cerca piuttosto quali siano le condizioni generali dell'atteggiamento e della pratica scientifici. Questo atteggiamento è, 'm un certo senso, "trascendentale" rispetto all'intera tradizione scientifica e alla sua storia. E carattere della sua trascendentalità non va ricercato dunque entro la scienza, ma nel momento della sua fondazione originaria, la quale appartiene appunto alla filosofia. E la filosofia infatti che pone inizialmente le basi per definire la ricerca conoscitiva; è essa che stabilisce che cosa si debba intendere per "ragione" e per "sapere razionale". In breve: è la filosofia a imporre i termini di episteme (scienza) e di logos (ragione) e perciò ad avviare quella grande svolta nel destino delle civiltà umane che è caratterizzata dalla nascita di una "mente logica" e, come diceva Husserl, di una "umanità della teoria"
[E. Husserl, La crsi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1961, Dissertazione III; p. 328 sgg.]. Si può descrivere questa svolta con l'espressione "omologazione dei contenuti". E significato logico è una proprietà generale del linguaggio, una sua "potenza" costitutiva. La svolta scientifica operata dall'umanità della teoria non è un evento assolutamente inedito che accade ex nibilo, ma è il concentrarsi dell'attenzione, entro la pratica generale e ancestrale del linguaggio, su una peculiarità o caratteristica di questa pratica stessa. Tale peculiarità viene, per così dire, specializzata e sollevata letteralmente a "verità" del linguaggio o dei suoi contenuti logici. Di qui la nascita correlativa di un mondo "vero" (dell'"essere") di contro ai contenuti a-logici, relegati nell'universo delle fantasie, dei sogni e delle passioni. Ciò che caratterizza i contenuti logici rispetto ai contenuti a-logici è che i primi sono "omologhi", cioè condividono la medesima definizione, hanno la stessa "essenza" . Questo loro tratto è appunto ciò che ne consente una "teoria" e perciò una "scienza" un sapere scientificamente atteggiato.

Questo è il quadro generale: cerchiamo ora di illustrarlo sia pure rapidamente.
La pratica della parola è, come tutte le pratiche, un'apertura di senso. Se due uomini si incontrano nella gran selva vichiana dei primordi e si scambiano un sorriso tendendo la mano pacificamente aperta, questa pratica di atteggiamenti corporei ha A senso dell'amichevole riconoscimento e della collaborazione fiduciosa. Se al contrario aggrottano la fronte, digrignano i denti e stringono le mani a pugno, la messa in opera di questi atti ha il senso dell'oa del timore e dell'aggressività bellicosa. Ogni pratica è l'apertura di un percorso che prefigura la sua conclusione (ovvero il suo senso) e si predispone ad attingerla tramite il percorso stesso. La mano tesa prefigura la stretta amicale con l'altra mano; la mano chiusa a pugno prefigura la percossa che infrange e respinge. Ogni pratica si apre così per il suo essenziale essere a distanza rispetto al suo Oggetto (cioè rispetto alla conclusione e al senso che la caratterizzano). E a partire da questa iniziale e costitutiva distanza che il percorso acquista senso e possibilità di esecuzione. E in vista dell'Oggetto finale "stretta di mano" che ha senso il protendere pacifico della mano aperta; è in vista dell'Oggetto finale "pugno o percossa" che ha senso il flettersi irrigidito delle braccia e il protendersi chiuso e ostile delle nocche. Tutti questi atteggiamenti sono pertanto segni dell'Oggetto, lo prefigurano e stanno al suo posto preannunciandolo; essi hanno il senso dell'Oggetto rivelato nella distanza.

Come prefigura il suo Oggetto la pratica di parola? Essa evoca nella presenza un assente del quale misura la distanza, prefigurandone in tal modo il senso. Che è pero questo "assente"? Spesso si crede e si dice che la parola è un segno che sta al posto della cosa quando la cosa, appunto, è assente. Pronuncio la parola "albero" ed ecco che ne evoco la presenza qui, in questa stanza, dove non sta e non potrebbe stare. Se vi stesse, non avrei bisogno della parola; basterebbe indicarlo con la mano. Tutto ciò non è solo molto ingenuo, ma è anche profondamente erroneo. L'assente di cui parla la parola ha la natura di un'assenza costitutiva e insostituibile. L'albero che la parola dice è assente anche se un albero è qui presente; questo fatto è costitutivo di quella pratica che è il linguaggio e ne fonda H senso e la possibilità originaria. Non si tratta quindi dell'assunzione convenzionale di segni al posto di cose. Come potrebbe mai istituirsi una siffatta convenzione? Dovrei già possedere il linguaggio, essere capace di praticarlo, per poter stabilire che quello è un "albero" e che perciò posso significarlo con questi suoni della voce e tratti di penna.
Come ogni pratica, anche la pratica della parola si collega con una molteplicità di altre pratiche, che presuppone e che riorganizza e utilizza entro la propria apertura di senso, cioè entro la sua peculiare distanza (che è poi l'assenza per definizione). Devo aver già praticato il mio corpo in connessione con altri corpi, aver frequentato sguardi, abbracci, carezze, afferramenti, con le loro aperture di senso (cioè i loro Oggetti) e il correlativo pathos della distanza, della tensione, della richiesta e della soddisfazione, della corrispondenza e della non corrispondenza, perchè la parola "uomo" possa a sua volta acquistare un senso e introdurmi in una nuova pratica di frequentazione intersoggettiva. La pratica di parola riorganizza l'intera situazione, dando un nome agli Oggetti, cioè chiamando "sorriso" il sorriso, "stretta di mano" la stretta di mano e così via. Non interessa ricostruire qui la genesi di questo cammino; interessa il suo risultato il quale non è né semplice univoco.
Le parole, intrecciate come sono a pratiche molteplici, portano con se un fondo inesauribile di esperienze e di "passioni". Una gamma infinita di Oggetti, frequentati nell'apertura fascinosa della loro distanza, nell'"incanto"
[Per tale ricostruzione genetica rinvio al mio Il silenzio e la parola. Luoghi e confini del sapere per un uomo planetario, Marietti, Genova 1990, cap. II.] della loro apertura, viene conservata, trasformata e interpretata nella pratica del linguaggio, cioè a partire dal peculiare incanto evocativo della parola e del nome. Questa falda del linguaggio, che potremmo definire emozionale, non è un di più della parola, ma una sua componente costitutiva che fa emergere il mondo delle cose in quanto cose nominate. Non è lo stesso Oggetto il sorriso semplicemente corrisposto in un'originaria pratica mimica e il sorriso saputo come "sorriso"; cioè nominato e rivelato entro la nuova pratica significativa del linguaggio. Questo secondo sorriso ha in se, nella sua trasformazione e interpretazione, il ricordo o la traccia dell'esperienza e dell'emozione del primo, ma a partire dall'incanto della sua propria pratica. Magia della parola o sua costitutiva capacità "poetica", come si può dire.

C'è però un ulteriore aspetto del linguaggio, connesso alla sua apertura. Esso è il risuonante nominare in comune che è proprio della voce. Tu mi sorridi e io ti sorrido. In questa pratica di corrispondenze e di risposte noi ci colleghiamo l'uno per l'altro tramite un Oggetto (il sorriso) che e il senso della nostra relazione, alla quale ci assegna come poli (colui che, essendo oggetto di sorriso, ne diviene il soggetto, il "sorridente", o l'animale che può sorridere). In questa relazione siamo io e te, il sorridente e il sorriso, o il sorriso sorridente, ma non siamo affatto "io", "tu", "sorriso". Siamo tra noi, cioè proprio tra noi due, senza essere né "noi", "due". Perché ciò accada è necessaria la pratica della voce, innestata su una precedente pratica di sguardi, cioè di relazioni contingenti e concrete che percorrono distanze e mettono in opera Oggetti contingenti e concreti. Ma quando la voce dice "sorriso", ciò che essa nomina non è solo l'equivalente, entro la pratica e i percorsi vocali, di quella relazione contingente a due: ciò che essa dice vale idealmente per tutti e per sempre. Essa non nomina soltanto questo sorriso, ma nomina ipso facto il sorriso. Essa procede cioè a una identificazione che vale per tutti e 'm ogni luogo, e che istituisce perciò i "tutti", il "noi" parlante, rendendone omologhi gli Oggetti: ciò che vale come sorriso per tutti e in ogni luogo. Questa universalità di principio rende l'Oggetto della parola costitutivamente assente. In nessun luogo può stare il sorriso, nemmeno quanto tu, proprio ora, mi sorridi. Ma questa assenza è appunto ciò che mi consente, non solo di sorriderti, ma di nominarne la pratica entro un'altra pratica: quella pratica che, nominando. omologa i contenuti e così li fissa e li specifica, h fa esser presenti come cose possedute non solo nel percorso della risposta contingente ed evanescente, ma in un'universalità infinitamente attingibile e rievocabile. La pratica del sorriso attinge il suo Oggetto in quanto in certo modo lo consuma, tramite la corrispondenza della risposta (noi ci sorridiamo e poi passiamo ad altro, perché se continuassimo a sorriderci diverremmo due insensate smorfie viventi: ogni pratica contingente è un circolo che ogni volta si chiude per ricominciare da capo a suo tempo, cioè nelle sue circostanze); la pratica del linguaggio, invece, non attinge mai il suo Oggetto (piuttosto si limita a indicarlo idealmente); essa non ha il senso della fruizione contingente (la parola "acqua" non calma la sete), ma quello di un'infinita ricostituzione e ristrutturazione di tutte le pratiche contingenti attraverso la nominazione dei loro specifici Oggetti. I quali divengono così Oggetti della voce (della voce di tutti o della vox publica, sicchè se grido "acqua" tu ti dai da fare per calmare la mia sete), assenze che valgono per tutti e per ciascuno e che costituiscono il noi intersoggettivo parlante e il suo patrimonio di conoscenze. Noi parlante e, in questo senso, pensante: vedo il tuo sorriso, ma anche so che è un "sorriso" cioè l'omologo di un fare universale che mi è ora interiormente noto e che posso decidere di mettere in opera indipendentemente dall'apertura delle mie emozioni, per es. per cortesia o per convenienza; inizia il mondo di senso della verità e della menzogna, cui è essenziale il linguaggio [Per il significato specifico di questo termine si veda il mio Immagini di verità. Dal segno al simbolo, Spirali, Milano 1990.].

Il contenuto (l'Oggetto) del sorriso è pertanto sottratto, o sottraibúe almeno parzialmente, dal circolo della sua pratica e della sua rivelazione originaria; esso è omologato alla sua vox significativa, a un'"idea" (per principio assente e perciò infinitamente replicabile in re), a una "specie eterna". E cosi che Ignazio (come osservava ironicamente Catullo) può ridere e sorridere in ogni momento, al solo scopo di sfoggiare la sua bella dentatura. Cosa che non poteva fare quando, infante, oltre a non avere denti, non era ancora entrato nella pratica della parola e nel suo percorso che significa Oggetti per tutti. Oggetti assenti e perciò universali. che non esclude che Ignazio ritrovi talora il sorriso spontaneo della pratica originaria, saputa come sorriso, ma esercitata in connessione con il suo incanto primordialmente costitutivo.

Ora siamo forse in grado di comprendere che la natura "logica" (concettuale, cioè universale) del linguaggio è condivisa da sempre, assieme a quella emozionale, patica o "poetica", da tutti i parlanti. Da sempre, in quanto parlano, gli uomini anche pensano e ragionano e perciò organizzano la loro azione in modo "intelligente". Agamennone comprende benissimo ciò che in universale, o in generale, designa la parola "albero", anche se essa evoca prevalentemente in lui l'immagine di un Dio e un percorso di narrazioni e di esperienze mitiche, piuttosto che lo schema di una classificazione botanica. Anch'egli nomina la spada come quell'assente essenziale che specifica il carattere omologo della funzione di ogni spada (sicché egli può prenderne un'altra se non trova la propria e gli bisogna con urgenza), senza per questo aver bisogno necessariamente di riferirsi a Vulcano e al riti ancestrali del fuoco e del fabbro in quanto mago ed evocatore delle potenze telluriche e celesti. La sua pratica di vita frequenta già, tramite il linguaggio, i significati logici delle cose e, come meglio si direbbe, i significati logici in quanto "cose": strumenti universalmente disponibili e utilizzabili per tutti e per ciascuno. Solo che il sapere sulla cui base egli costituisce il suo mondo e il suo Sé non si concentra su tali significati, ma molto più su quelle emozioni rivelative originarie che costituiscono le sue pratiche contingenti di uomo in relazione con la natura (con la sua natura) e col Dio (con i suoi Dei). Di uomo, cioè, profondamente definito dalle sue pratiche di vita; di uomo per il quale ci sono "Achei" e "Troiani" e non in generale e propriamente "uomini" (sebbene il significato generale della parola non gli sia ignoto, ma sempre pensato in contesti di vita determinati: gli uomini e gli animali, gli uomini e gli Dei, e non pensato nel suo "concetto" o come puro concetto; che ne sa infatti Agamennone, o Omero, della filosofia?).
La nascita della filosofia, cioè del sapere e della, scienza "logica", e appunto caratterizzata dallo svincolamento della parola dai suoi contenuti di vita attraverso l'esaltazione del puro contenuto mentale e logico, già parzialmente o implicitamente presente in ogni pratica di linguaggio. Come ciò accada richiederebbe una lunga disamina genetica, o genetico-storica, che qui non si può fare. Ma certo alcuni eventi sono essenziali per questa nascita della mente logica. Anzitutto una pratica argomentativa del linguaggio che si concentra sul "detto", in sé considerato, indipendentemente dall'autorità di chi lo dice e da altre circostanze occasionali; per es. indipendentemente dall'autorità del Dio, del sacerdote, del re e dalla tradizione di senso che tale detto riveste nelle storie mitologiche. E quanto accade nel poema di Parmenide, quando la Dea invita l'aspirante alla sapienza a considerare ciò che essa ha detto, fornendo prove argomentative, e a "giudicare con la mente" la coerenza formale degli enunciati. La Dea non si. appena alla forza della sua autorità, ma alla "verità" del suo discorso: fatto che dovette suonare del tutto inusitato per i contemporanei di Parmenide.

Questa attenzione rivolta al contenuto del logos, cioè al contenuto logico dei discorsi, esige l'assunzione, da parte del soggetto che pratica il linguaggio come parlante o come uditore, di un luogo o punto di vista universale. Si tratta di considerare, come diceva espressamente Eraclito, ciò che è comune e vale per tutti, indipendentemente dalle idiosincrasie patiche di ognuno, cioè dalle pratiche di vita e dalle tradizioni contingenti. Assumendo la natura universalizzante della voce, che parla per tutti e che così costituisce la comunità dei parlanti come polo di riferimento unico e privilegiato, A soggetto si "spiritualizza" (come diceva Vico); perde letteralmente A suo corpo contingente per assumere un'anima o una mente logica che parla silenziosamente nell'interiorità di ognuno.
Questo è infatti il risultato di quella grande rivoluzione socratico-platonica che prese espressamente il nome di filosofia e di episteme logike. E soggetto assume cosi un punto di vista idealmente "panoramico": contempla il mondo come lo potrebbe vedere Dio (filosofia e teologia nascono insieme, come mostra la Metafisica aristotelica) e ne nomina le strutture universali tramite definizioni logiche. La parola patica e poetica poteva narrare che il Dio (Dioniso) è maschio e femmina, che il mendicante è nel contempo Atena ecc. Ma la parola scientifica definisce e distingue, assegnando gli enti a teorie e regioni dell'essere esclusive: o è maschio o è femmina, o e un mendicante o è un Dio ecc. Il mondo polimorfo e polisenso dei primordi, il mondo delle pratiche sacrali e delle iniziazioni cultuali, svanisce e al suo posto sorge il mondo della oggettività universale, delle mere "cose" concettualmente definite, della verità, univoca, omologa e profana.

Tutto ciò, però, non sarebbe potuto accadere senza l'avvento della pratica greca della scrittura alfabetica. E soggetto che si atteggia "teoreticamente" fuori del mondo e che in tal modo rende il mondo oggetto di una visione panoramica, A soggetto che fa astrazione dai caratteri patici (esso dice "empirici") degli eventi per assumere l'universale struttura cosale e oggettiva di ciò che chiama "enti", questo soggetto non potrebbe emergere senza la pratica della scrittura e della lettura alfabetica. Senza scrittura nessuna scienza. Entro la pratica della tradizione orale non possono emergere atteggiamenti scientifici e "cose" oggettive. La tradizione orale, il suo messaggio, esigono una partecipazione emozionale alla parola, un'identificazione patica, appunto in cui i soggetti rivivono circolarmente sul filo di una memoria connessa a formule e appellativi mitico-rituali, gli archetipi di senso in base ai quali essi elaborano la tradizione delle loro pratiche ancestrali di vita. In questa sapienza orale e fondamentalmente poetica non vi e spazio per un soggetto critico e originalmente creativo, nel senso almeno della creatività individuale. Proprio gli "individui", così come noi h intendiamo, sono largamente assenti e la creatività è piuttosto il risultato di pratiche collettive, anonime ed inconsapevoli. (Il linguaggio stesso è anzitutto il prodotto di questo tipo di pratiche).

La pratica della scrittura alfabetica determina invece una nuova distanza tra il parlante e il detto. E lettore, a differenza dell'uditore, non è più paticamente incalzato dal tempo, dal racconto, dal ritmo e dalla musicalità del canto; egli può fermarsi a piacere, tornare indietro, rileggere, controllare, riflettere, analizzare e misurare. Può farlo perché l'inafferrabile evento della voce si è ora fatto cosa, manufatto, oggetto solido conservabile e utilizzabile a piacere. La lettura esige d'altronde mente fredda, non partecipazione; essa favorisce e ancor più suggerisce tutte quelle operazioni analitiche e documentarie che furono alla base della nascita della storia, della linguistica, della geografia, della geometria ecc. [Cfr. F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Opere, vol. III, tomo II, Adelphi, Milano 1973.] Inoltre la scrittura alfabetica stessa e già di per se una potente pratica di idealizzazione, essendo basata sull'invenzione, essenzialmente logica, di pure lettere ideali che non sono la mera trascrizione empirica dei suoni della voce, come accadeva nei sillabari arcaici [Cfr. La nascita del tempo e della storia, in Il silenzio e la parola, cit.]. Ne sono l'equivalente di una pittura o di un disegno delle cose, come accadeva nelle ancora più antiche pratiche ideogrammatiche e geroglifiche. La scrittura alfabetica è un corpo astratto della parola, un corpo trasparente che il lettore deve trapassare con lo sguardo per concentrarsi sul puro significato. L'ideogramma esige attenta partecipazione al corpo dei, suoi segni. L'alfabeto, al contrario, si cancella nella lettura, la conformazione del suo corpo scritto, le sue linee, punti e circolini, non hanno importanza, poiché sono, o divengono con l'uso, mere convenzioni. Il buon lettore letteralmente non li vede più e la sua disposizione e totalmente astraente e idealizzata, cioè rivolta all'anima spirituale della parola. Quest'anima è la generalità universale del concetto logico di cui le lettere alfabetiche sono la riscrittura artifìciale: puro mezzo e medio delle intenzioni dell'anima.

Ed è la scrittura, infine, con la sua schematizzazione lineare del discorso, con la sua riduzione della parola e del suono della voce all'unica dimensione della successione temporale (astrazion fatta da ogni pathos della pronuncia, da altezza, intensità e timbro del suono), a predisporre lo spazio logico della definizione. La linea di scrittura, con i suoi punti successivi ideali rappresentati dalle lettere e con l'unicità progressiva del verso di lettura, dispone il discorso in un'alternativa semplice e netta: non si può dire (cioè non si può scrivere) nello stesso tempo e nello stesso senso qualcosa e il suo contrario (come stabilirla espressamente il principio fondamentale della logica). Infatti, se scrivo "bianco" non ho scritto "non bianco", e neppure "nero", e non c e qui sottinteso o allusione possibile. La definizione logica, inventata da Platone nel Sofista tramite un'ideale divisione per due dei concetti, dal più al meno generale, cioè quella serie di ypsilon capovolte che disegnano l'intero spazio logico di una nozione (nell'esempio famoso la tecbne o "arte"), sono palesemente un'applicazione della mentalità lineare alfabetica al senso delle parole, ridotte al puro significato logico e quindi all'alternativa secca d vero e del falso. La significatività stessa degli eventi del mondo viene in tal modo ridotta al puro fatto di essersi, verificata o no verificata, così o non cosi: o e o non e, come già diceva la Dea Parmenide. Questo "è o non è" assurge a un unico senso vero di ci che è concepibile come reale, cioè della realtà tutta intera.

Abbiamo in tal modo tutti gli elementi essenziali per cogliere la trascendentalità del soggetto scientificamente atteggiato. No può esservi scienza se non a queste condizioni: che il mondo venga idealmente guardato come un oggetto a partire da un punto di vista esterno e panoramico. E' al cospetto di questo ideale soggetto "teoretico" che accadono le reazioni primordiali del big bang, ricostruite e descritte come se l'osservatore scientifico universale fosse là a guardarle (evidentemente da altrove rispetto a l'universo) ed esse accadessero "davanti" (dove?) ai suoi occhi (quali?). E questo medesimo luogo panoramico e teologico ch viene fatto valere dallo storico, quando descrive le "oggettive" vicende delle migrazioni indoeuropee o della rivoluzione francese. Inoltre questo guardare mira a quei contenuti idealizzati de voce che sono i concetti: ciò che può valere per tutti in o tempo e circostanza (cioè fuori di ogni tempo e circostanza, fuori di ogni tradizione culturale definita, salvo la ripetibile verificabilità ad libitum della verità pubblica). Non questo o quell'albero le pratiche contingenti ed emozionali che lo concernono entro pratiche culturali definite, ma l'albero, l'universalità del suo detto per tutti in quanto trascrizione delle pratiche che lo concernono entro la pratica universale della voce, che istituisce l'accordo logico e pubblico dei parlanti. Accordo fondato sulla scrittura che rende appunto verità pubblica e da tutti verificabile ciò che essa ha trascritto nella univocità omologante e astraente del su schema. E poiché la scrittura alfabetica trascrive ancora troppo dell'ambiguità corporea e sensuale delle parole (donde l'inefficacia, il verbalismo, della logica antica e delle sue definizioni sillogistiche, come lamentava Bacone), la scienza moderna sostituisce alla scrittura alfabetica la scrittura matematica. Entro quest'ultima tutto è finalmente idealizzato e liberamente costruito (per definizione), sicchè disponibile uno schema euristico che si rivolge (si applica come una rete, diceva Wittgenstein) [Cfr. E.P. Havelock, Dalla A alla Z. Le origini della civiltà della scrittura in Occidente, trad. it., Il Melangolo, Genova 1987.] al mondo, al fine di cogliere gli enti nella loro semplice, insignificante, universale, pubblica, verificabile e ripetibile esistenza.

Ove si diano queste condizioni (cioè la messa in opera di questa pratica, col suo soggetto e con i suoi segni di scrittura) si dà scienza. Il sistema tolemaico è scientifico, per es. quanto quello copernicano, se e solo se (e sin dove) esso mette in opera, per costituirsi, tali condizioni, indipendentemente dai contenuti e dalle verità di volta in volta asserite. Lo stesso è da dirsi della psicoanalisi, della quale è peraltro facile misurare ora l'imbarazzo a definirsi come scienza. Lo psicoanalista può sforzarsi di occupare il luogo scientifico dello sguardo panoramico e a partire di qui può voler enunciare definizioni universali e pubbliche circa il disagio strutturale dei suoi pazienti. Questa costruzione scientifica dello psichismo inconscio, elaborato appunto come Oggetto entro una pratica di osservazione "razionale", non è però ne il tutto l'essenziale della sua pratica di psicoanalista, incentrata piuttosto su un incontro e un dialogo emozionali, su un trasferimento di senso (transfert) interpretativo e vissuto, cioè su una pratica "finita" e non "generale", dialogico-gestuale e non concettuale, individuale e non universale, e perciò di principio non ripetibile ne verificabile in "pubblico". La psicoanalisi è una prassi in senso stretto cioè un'esperienza, e non una teoria o una pratica teorica astratta. Di qui del resto la sua efficacia e il suo valore rivoluzionario potenzialmente tale) per il sapere del soggetto.

Col che abbiamo risposto alla prima questione, ma ci siamo anche aperti il campo per rispondere molto sinteticamente alla seconda, relativa alla specializzazione scientifica. Quest'ultima dipende interamente dalla progressiva riduzione e trasformazione del sapere scientifico a tecnica. Tale riduzione è peraltro già implicitamente iscritta nella costituzione originaria della episteme filosofica, che è fondamento di tutta la pratica scientifica. La tecnica, infatti, non è altro che la messa in opera (la costituzione e la costruzione) del soggetto scientifico universale e panoramico e la correlativa costruzione "mondiale" della verità pubblica; in altri termini, la realizzazione della prospettiva scientifica, cioè la riduzione di tutte le esperienze, di tutte le pratiche, entro l'univocità di senso della pratica (della scrittura) scientifica.

Stando entro l'universo di senso della scienza, essendo soggetti costituiti dalle sue pratiche (anche se non unicamente da queste, ma certamente e prevalentemente da queste per quanto concerne il nostro punto di vista conoscitivo, cioè l'ideologia pubblica del nostro sapere e del nostro fare), noi restiamo ciechi alla contingenza storica e strutturale delle pratiche scientifiche che esercitiamo e che in noi e su di noi si esercitano. Ne assumiamo invece gli Oggetti come verità assolute, come "cose reali" di universale validità. Cioè scambiamo la costruzione dell'universale logico (che è un fatto contingente della cultura europea) per l'evidenza stessa e in- se dell'esistenza dell'universale. Ciò che facciamo diventa ai nostri occhi ciò che in se stesso è. E indubbiamente noi facciamo e produciamo verità universali, verità pubbliche valide per tutti (per tutti coloro che imparano a ragionare, a scrivere e a calcolare come noi); che "a non è non a" è indubbiamente una verità universale (proprio questa è la specificità della sua costruzione omologante: di valere come universale), ma ignoriamo o dimentichiamo che l'universale è a sua volta una particolarità, l'Oggetto di una pratica finita tra innumerevoli pratiche finite. Questa dimenticanza è la specifica superstizione o idiosincrasia della razionalità scientifica.

Sin dall'inizio poi il soggetto scientifico è intimamente tecnico. Esso si costituisce in base alla tecnica dei discorsi dialettici (degli eleati, dei sofisti, dei socratici) e dei discorsi analitici (degli aristotelici); e poi in base alla tecnica della scrittura. Tutta la storia della scienza non è che la progressiva effettuazione del punto di vista panoramico-teologico, la sua traduzione in re, la sua discesa di cielo in terra, come diceva Hegel, sino alla costruzione artificiale dell'evento, sottratto alla accidentalità dell'accadere naturale. La scienza che vuole "scoprire" il mondo si accorge che deve in realtà riscriverlo (Galilei) e inventarlo e costruirlo come automa (Cartesio). L'originaria verità della visione "teoretica", con la sua pretesa ideologica di dire il mondo com'è (di dire l'"essere"), ignorando che l'essere è solo l'Oggetto della sua pratica determinata e delle sue tecniche logiche, si trasforma sotto l'impulso irresistibile della tecnica. Non la verità contemplativa, ma la verità performativa prende il sopravvento, in quanto verità ed effettualità della prima. Non interessa il mondo com'è in (idea metafisica arcaica), ma il mondo come può essere, in quanto reso oggetto delle manipolazioni tecniche.

Negando l'unicità della verità scientifica, la specializzazione le conferisce invece corso reale, tramite l'infinito differenziarsi dei procedimenti produttivi e riproduttivi che scandagliano ogni settore dell'esistente e lo sottomettono alla volontà conoscitiva e trasformativa del soggetto panoramico universale e pubblico. Sicché, giudicando in modo superficiale, l'unità della scienza e il senso razionale della sua ricerca sembrano perduti; ma guardando le cose più a fondo si deve dire che tale unità è progressivamente sempre più garantita dall'inflessibilità duttile e capace, del progetto tecnologico. E quest'ultimo non è altro che la trionfante affermazione, sul mondo e come mondo, dello sguardo teoretico inaugurato dalla filosofia. Essoèiltrionfo della metafisica (cioè di quel quadro di aperture e di opzioni razionali che sopra abbiamo succintamente richiamato come condizioni trascendentali dell'umanità scientifica); per questo la metafisica può ora svanire e tramontare: essa si è tradotta interamente nei "fatti" e non ha più motivo di sussistere come opzione e progetto ideali. L'unicità teologica della metafisica (l'unico Dio di Senofane) si è tradotta nella unicità del progetto tecnologico: salda unità che si afferma proprio nella molteplicità indifferente delle sue manifestazioni.

Resta però il fatto che l'universale logico e la sua realizzazione e traduzione tecnologica, come "mondo pubblico" che deve valere quale verità omologata di tutti, sono in realtà eventi particolari inerenti a pratiche particolari. Pratiche incentrate, come abbiamo visto, su una particolarità della voce (poiché' tale è il suo risuonare "inaudito" che consente al soggetto delle pratiche di sapersi in un'infinita idealità intersoggettiva e di rivolgersi a un Oggetto altrettanto ideale e infinito); particolarità della voce che motiva però la riduzione dell'intera esperienza della parola a un unico valore di verità, entro il quale vengono trascritte tutte le altre pratiche. Questo imperialismo della parola e della voce logica ha in sé la propria contraddizione, che si manifesta come non senso nichilistico del progetto tecnologico finale. La produzione dell'universale non ha infatti, ne può avere m se, altro scopo se non quello della funzionalità efficace dell'azione. La sua fondazione metafisica "razionale" si riduce alla verità performativa del puro essere in funzione che gira su se stesso; il progetto tecnologico non si esprime altrimenti se non in un "ridurre alla ragione"
ogni altra apertura di mondo.

Esito di questo nichilismo è allora l'emergere, alla frontiera della scienza e della tecnologia, della questione etica, come oggi si va facendo sempre più chiaro. Il fare tecnico invoca un perché, un fine e un limite della sua azione, essendo quest'ultima l'omologazione pratica di ogni circostanza in una progettualità infinita che, prescindendo per essenza da ogni circostanza, e al limite costruendosela ad libitum, non è più in grado di esperire un senso qualsiasi (cioè un'autonoma e originaria apertura di mondo nella pratica); essa ha solo direzione infinitamente in avanti (secondo l'ideologia del "progresso"), analogamente al verso di scrittura. La progettualità tecnica e come un immenso apparato di scrittura che produce all'infinito testi (proprio come l'attuale industria culturale) senza che sia più chiaro o abbia importanza il senso di ciò che in questi testi viene scritto. Di questa natura è in generale tutta la cosiddetta "cultura di massa", ovvero ciò che Heidegger chiamava la Weltzivilisation. Tutti vengono pedagogicamente avviati a saper leggere e scrivere, al solo fìne di produrre testi e di consumarli: footing quotidiano dell'alfabetizzazione, esercizio del tenersi in forma con l'universale "informazione".

Ma la richiesta di senso etico (la "bioetica") non è altro che il ritorno dell'originaria ambizione metafisica già perfettamente espressa da Platone quando osservava che la filosofia è l'unica scienza che, a differenza di tutte le altre, non sa solo il come e la causa della conoscenza, ma anche il suo perchè. Con la domanda etica le scienze, nella figura ultimativa della tecnica, tornano a casa, cioè tornano al problema della filosofia donde erano nate. La tecnica segna cosi il ritorno della filosofia, cui è presumibile che sempre più assisteremo in futuro.

Il ritorno della filosofia non può essere però il mero riproporsi dell'imperialismo metafisica del logos e della voce panoramica (il ritorno del "pensiero dell'essere" in qualsiasi forma concepito, anche nella forma della rimemorazione decadente e del suo moralismo piccolo-sociologico). Questo imperialismo si è già tradotto e consumato nel progetto specialistico della tecnica, di cui facciamo oggi ampiamente esperienza, e non ha in se altre potenzialità attuabili. E ritorno della filosofia è il ritorno della domanda di senso socratica che istituisce l'astrazione universale dalle contingenze e l'omologazione logica di tutte le differenze e di tutti i contenuti. Ma questa domanda non ritorna per noi come punto di partenza di un progetto conoscitivo-operativo infinito (che è appunto già dispiegato nel fatto della tecnica); essa ritorna piuttosto come Oggetto e conseguenza di una pratica che esige di essere vista a sua volta nella propria parzialità funzionale, nella propria efficacia pratica in quanto consumazione di ogni fondamento di senso. La domanda ritorna perciò come domanda sulla domanda stessa, cioè come capacità di esporsi alla domanda metafisica senza darle per questo corso "tecnico", come se la sua verità fosse l'unico, totale e assommante senso dell'uomo e della sua esperienza del mondo.

La filosofia ritorna, ma non come "teoria" dell'essere e dell'ente. E suo ritorno esige piuttosto una nuova pratica del pensiero: una nuova "etica del pensiero" che coinvolge e nel contempo interroga il senso di tutte le nostre scritture, dei nostri alfabeti e dei nostri numeri. E segno del ritorno è proprio in questa meditazione e in questa pratica del segno come liberazione dalla schiavitù automaticamente omologante della voce universale. Ciò non significa affatto abolizione dei segni della tecnica (progetto che sarebbe esso stesso infondato e infondabile, oltre che inattuabile per chiunque); significa piuttosto capacità di prender dimora in essi a partire da una pratica di pensiero più libera e più ampia, cioè a partire da un'etica del soggetto che esperisce (proprio grazie alle conseguenze della tecnica) la parzialità finita di tutti i suoi progetti e delle sue figure universalizzanti. Questa rivoluzione etica della "teoria" (che accade entro e non contro la teoria) sembra essere l'unica via di legittimazione, attiva e pratica, del progetto tecnologico come progetto planetario; cioè una sua interna trasformazione e trasfigurazione che conduca il sapere, da metodo (metbodos) universale scientifico-specialistico, a via (odos) formativa di pratiche del saper fare, del saper dire e del saper scrivere capaci di abitare l'evento di mondo che in esse si annuncia come nostro imminente destino.

 

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